Sarà capitato a tutti, sfogliando un volume qualsiasi di storia della letteratura, dell’arte o della filosofia, di imbattersi in un enunciato di questo tipo, ormai talmente comune da essere diventato una sorta di dogma laico: con la fine dell’età medievale e l’inizio di quella rinascimentale si assiste a un fenomeno inedito, quello di una progressiva laicizzazione della cultura, con il passaggio da una pessimistica visione teocentrica del mondo a una più ottimistica forma mentis antropocentrica; per sostenere detta tesi, il nostro fantomatico, ma più che reale manuale porta due esempi, citando solitamente il De miseria humanae conditionis, anche conosciuto come Liber de contemptu mundi, di Papa Innocenzo III, e la Canzone di Bacco, di Lorenzo de Medici. Per lungo tempo la Chiesa Cattolica si è opposta con forza a detta subordinazione del trascendente all’immanente, ma, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del XX secolo, anch’essa ha capitolato in larga parte di fronte alla visione immanentistica del mondo, con deleterie conseguenze, prima fra tutte una mutazione direi quasi genetica di ciò che il sacerdote è ontologicamente, da uomo di Dio ad assistente sociale. Ma il sacerdote non è e non può mai diventare un operatore nel campo del social work: in primis perché Nostro Signore non ha mai voluto e mai vorrà che l’attenzione dei suoi ministri sia rivolta solo agli aspetti terreni dell’esistenza e in secundis perché l’ambiente laico è ben più adatto a formare lavoratori del genere rispetto alle istituzioni ecclesiastiche. Ecco quindi che un’autentica spiritualità sacerdotale non può mai essere basata unicamente sullo stare bene insieme, ma deve avere come fondamento la preghiera, unico mezzo per condurre le anime a Dio. Per uscire da tale situazione sarebbe necessaria primariamente una seria riforma dei percorsi formativi in seminario per i futuri sacerdoti, da basare maggiormente sulla filosofia e teologia dell’Aquinate e su una migliore conoscenza della liturgia, dal punto di vista pratico e storico, ma, data l’impossibilità per noi laici di seguire concretamente tale strada, non possiamo fare altro che invitare i nostri parroci che ancora non lo facessero a ispirarsi ad alcune luminose figure di sacerdozio cattolico e in particolare a tre figure particolarmente esemplari pur nella diversità delle prospettive d’azione pastorale: i santi Giovanni Maria Battista Vianney e Giovanni Bosco e il beato Edoardo Poppe. Il santo curato d’Ars è stato definito da san Giovanni Paolo II modello senza pari e patrono di tutti i sacerdoti del mondo, titolo ribadito da Benedetto XVI nel corso dell’anno sacerdotale, celebrato in occasione del 150esimo anniversario del beato transito del Nostro.
San Giovanni Vianney ci insegna che il ruolo del parroco all’interno della sua comunità è un ruolo imprescindibile, che non può essere sostituito in nessun modo, nemmeno, come ebbe una volta ad esprimersi il patrono dei sacerdoti, dalla stessa Beata Vergine Maria o da duecento angeli, dato che né alla Madonna né a tutti gli angeli è dato il potere di pronunciare le parole consacratorie del Canone trasformando realmente il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo o di assolvere gli uomini dai loro peccati. Proprio i sacramenti dell’Eucarestia e della Confessione furono al centro della sua vita sacerdotale, arrivando a passare più di metà giornata in confessionale e a ricercare solamente i vasi sacri più preziosi e i lini più pregiati per la celebrazione del Divin Sacrificio. San Giovanni Bosco dedicò gran parte della sua esistenza terrena all’aiuto materiale della gioventù abbandonata torinese, ma tale opera non cancellò mai in lui l’interesse primario di un sacerdote, la preghiera: sua prima occupazione fu sempre la gloria di Dio, coniugata alla salvezza dei fratelli, ma primariamente la salvezza spirituale. Tale zelo è ben esemplificato da un sogno che Giovanni Bosco fece quando non era ancora nemmeno seminarista: trovandosi in mezzo a un gruppo di ragazzini che ingiuriavano i Nomi Santissimi di Nostro Signore e della Sua Beatissima Madre comprese immediatamente che la sua missione non consisteva in altro che nel far comprendere a quante più persone possibile gli enormi danni all’anima causati dal peccato, da tutto ciò che offende Dio, indirizzando tutti sulla via della salvezza. Infine, il beato Edoardo Poppe, nella sua brevissima vita, morì infatti poco più che trentenne nel 1924, spese tutto il suo percorso sacerdotale, di appena otto anni, nella propagazione dell’autentica devozione a Nostro Signore Gesù realmente presente nell’ostia consacrata in corpo, sangue, anima e divinità e nell’insegnamento del catechismo ai più piccoli, essendo sempre dalla parte dei più poveri, non perché precursore del cattocomunismo tanto in voga negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, ma solo perché totalmente permeato della parole di Gesù Cristo nelle Beatitudini, nel celeberrimo discorso della montagna, da tutti conosciuto, ma da pochissimi realmente compreso e non piegato alle ideologie. Concludo questa brevissima riflessioni sull’essenza del sacerdote tramite tre exempla con un’antica descrizione di cosa dev’essere un pastore d’anime, descrizione contenuta in un manoscritto medievale salisburghese: “Un sacerdote deve essere al tempo stesso piccolo e grande; nobile di spirito come di sangue reale; semplice e spontaneo come le radici dei campi; eroe nel dominio di sé; uomo che ha combattuto con Dio, fonte di santificazione; peccatore cui Dio ha perdonato; sovrano dei suoi desideri; servo di timidi e dei deboli che non arretra di fronte ai potenti e si china, al contrario, davanti ai poveri; discepolo del suo Signore; capo del suo gregge; mendicante con mani assolutamente aperte; portatore di innumerevoli doni; homo di battaglia; madre per confortare e consolare gli infermi; con la saggezza dell’età e la freschezza e l’abbandono del fanciullo; in tensione verso le vette con i piedi ben piantati sulla terra; fatto per la gioia; sperimentato nelle sofferenze; distaccato da ogni tipo di invidia; previdente; che parla con frequenza; amico della pace”.