La liturgia nella Storia e nel Magistero
Nella Chiesa del periodo precedente a Carlo Magno (800-814) vi era una frammentazione di riti, testi e usanze liturgiche molto diffusa. Lo stesso canto gregoriano non aveva carattere universale, essendo in vigore altre forme musicali, come il canto ambrosiano, il beneventano, il parigino, l’aquileiese o patriarchino. Con la Renovatio Imperii di Carlo, accanto alle pretese unificatrici dal punto di vista politico si unirono quelle religiose, e il risultato fu parzialmente raggiunto. Nel Basso Medioevo permase la pluralità rituale, che fu risolta soltanto con il Concilio di Trento (1545-1563) e la promulgazione del Messale Romano con la bolla Quo primum tempore (1570), con cui si abolivano parimenti tutti i riti che non risalissero a prima del 1370, cioè che non avessero almeno duecento anni. Il Concilio Tridentino, inoltre, per ribadire la dottrina della Chiesa che era stata attaccata dalle idee di Lutero e di altri “riformatori”, ci ha lasciato un encomio della Messa quale è nella propria essenza, e cioè Sacrificio salvifico, offerta per i fini latreutico, eucaristico, propiziatorio e impetratorio. Nella Sessione XXII, del 17 settembre 1562, al Capitolo I, si legge
Poiché sotto l’antico testamento (secondo la testimonianza dell’apostolo Paolo; cfr Eb. 7, 11-19) per l’insufficienza del sacerdozio levitico, non vi era perfezione, fu necessario - e tale fu la disposizione di Dio, padre delle misericordie, - che sorgesse un altro sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech, e cioè il signore nostro Gesú Cristo, che potesse condurre ad ogni perfezione tutti quelli che avrebbero dovuto essere santificati. Questo Dio e Signore nostro, dunque, anche se una sola volta (cfr Eb. 7, 27; 9, 12-26-28) si sarebbe immolato sull’altare della croce, attraverso la morte, a Dio Padre, per compiere una redenzione eterna; perché, tuttavia, il suo sacerdozio non avrebbe dovuto tramontare con la morte, nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito (1Cor 11, 23), per lasciare alla Chiesa, sua amata sposa, un sacrificio visibile (come esige l’umana natura), con cui venisse significato quello cruento che avrebbe offerto una sola volta sulla croce, prolungandone la memoria fino alla fine del mondo, e la cui efficacia salutare fosse applicata alla remissione di quelle colpe che ogni giorno commettiamo; egli, dunque, dicendosi costituito sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech (cfr Sal 109, 4; Eb. 5, 6), offrí a Dio padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino, e lo diede, perché lo prendessero, agli apostoli (che in quel momento costituiva sacerdoti del nuovo testamento) sotto i simboli delle stesse cose (del pane, cioè, e del vino), e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio che l’offrissero, con queste parole: Fate questo in memoria di me (cfr Lc 11, 19; 1Cor 11, 24), ecc., come sempre le ha intese ed ha insegnato la Chiesa cattolica. Celebrata, infatti, l’antica Pasqua, - che la moltitudine dei figli di Israele immolava in ricordo dell’uscita dall’Egitto -, istituí la nuova Pasqua, e cioè se stesso, da immolarsi dalla Chiesa per mezzo dei suoi sacerdoti sotto segni visibili, in memoria del suo passaggio da questo mondo al Padre, quando ci redense con l’effusione del suo sangue, ci strappò al potere delle tenebre e ci trasferí nel suo regno (cfr Col 1, 3). Ed è questa quell’offerta pura, che non può essere contaminata da nessuna indegnità o malizia di chi la offre; che il Signore per mezzo di Malachia (cfr Mal 1, 11) predisse che sarebbe stata offerta in ogni luogo, pura, al suo nome che sarebbe stato grande fra le genti; e a cui non oscuramente sembra alludere l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinti, quando dice (cfr 1Cor 10, 21): che non possono divenire partecipi della mensa del Signore, quelli che si sono contaminati, partecipando alla mensa dei demoni. E per “mensa” nell’uno e nell’altro luogo intende (certamente) l’altare. Questa, finalmente, è quella che al tempo della natura e della legge, era raffigurata con le diverse varietà dei sacrifici: essa che raccoglie in sé tutti i beni significati da quei sacrifici, come perfezionamento e compimento di tutti essi.
Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Sacrosanctum Concilium, al n. 10, afferma
[…] La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei sacramenti pasquali, a vivere in perfetta unione; prega affinché esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede; la rinnovazione poi dell'alleanza di Dio con gli uomini nell'eucaristia introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall'eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa.
Sempre la Chiesa ha custodito, mediante lo Spirito Santo, ciò che ha di più caro, la presenza reale di Gesù Cristo, e ciò che possiamo auspicare, in questi nostri tempi, è un ritorno alla liturgia: nulla possiamo senza la grazia, che ci viene comunicata attraverso i tesori sacramentali. Torniamo al Signore con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti, perché il Signore si mostri geloso della sua terra e si muova a compassione del suo popolo (Gioele 2, 12-18).