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De Christo Redemptore

«O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem!» Il canto della veglia pasquale sintetizza in modo perfetto la dottrina cattolica sulla Rendezione operata da Cristo: Egli è il vero Agnello di Dio, sacrificato per i nostri peccati. Alla scuola di San Tommaso cerchiamo di comprendere come Cristo ci ha salvati e perché era necessario che morisse sulla Croce.

La Morte di Cristo in Croce è il centro della nostra fede. Allo stesso tempo, però, la Croce, come afferma l’Apostolo, è «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23). Ancora oggi, infatti, fa storcere il naso a molti Cristiani e a molti teologi, che preferiscono fare riferimento al Cristo Risorto e mettere da parte il Crocifisso. 

La quaestio 46 della Pars tertia si sofferma sulla necessità e sulla convenienza della Passione di Cristo. Era necessario che Cristo morisse sulla Croce? San Tommaso ci insegna che la necessità si può intendere in due modi. In un primo modo, è necessario «ciò che, secondo la sua natura, è impossibile che sia altrimenti» (STh III, q.46, a.1). È evidente che da questo punto di vista la morte di croce non era necessaria, perché Dio ci avrebbe potuto salvare con un’altra modalità. In un secondo modo, invece, «se qualcosa di esteriore che arreca la necessità è un fine, si dirà che una cosa è necessaria, se si suppone il fine, cioè quando un fine qualsiasi non può esserci in nessun modo o non può esservi in modo conveniente, se non è supposto un tale fine» (ivi). La morte di croce era necessaria in questo secondo senso e per tre motivi: innanzitutto, perché noi uomini siamo stati salvati tramite la Passione di Cristo e non diversamente; in secondo luogo, perché Cristo, «per mezzo dell’umiliazione della passione, meritò di essere innalzato nella gloria» (ivi); infine, perché La decisione di Dio era stata predetta e prefigurata nelle Scritture e si dovevano compiere le antiche profezie. 

Ci si può chiedere ancora: poteva esserci un mezzo più conveniente della Passione per salvare l’uomo? Il dottore angelico ci spiega che «tanto più conveniente è un mezzo per conseguire un fine, quante più cose, che giovano al fine, si hanno per mezzo di esso» (a.3). Con la Passione Cristo ha ottenuto molte cose attinenti alla salvezza dell’uomo e, di conseguenza, essa fu il mezzo più conveniente. Egli, infatti, tramite la sua passione ottenne: in primo luogo, che l’uomo conoscesse quanto Dio lo ama; in secondo luogo, che l’uomo avesse l’esempio dell’obbedienza, dell’umiltà e di ogni altra virtù; poi, ottenne per l’uomo la grazia giustificante e la gloria della beatitudine; infine, fece comprendere all’uomo la necessità di non peccare.

Ancora ci si chiede: oltre che la Passione, cioè la sofferenza, era necessaria la morte proprio tramite il supplizio della Croce? Anche in questo caso San Tommaso elenca una serie di motivazioni per cui era necessaria la morte per crocifissione (a.4): primo, per dare un esempio di virtù; secondo, perché era il tipo di morte che più conveniva al peccato dei progenitori (Adamo ed Eva mangiarono il frutto dell’albero; Cristo fu appeso all’albero della Croce); terzo, per purificare oltre all’umanità anche l’intera creazione, essendo morto non sotto un tetto, ma all’aperto (San Tommaso cita in questo caso San Giovanni Crisostomo); quarto, perché «con il morire sulla croce, prepara per noi l’ascesa al cielo» (ivi); quinto, perché la figura della Croce, secondo l’interpretazione di San Gregorio Nisseno, rappresenta l’universo intero (i quattro punti cardinali) e la Passione di Cristo fu un evento salvifico universale; sesto, perché la figura della Croce, secondo l’interpretazione di Sant’Agostino, indica la larghezza, l’altezza, la lunghezza e la profondità delle virtù insegnate da Cristo; settimo, perché il legno è simbolo di salvezza in diverse figure dell’Antico Testamento (l’Arca di Noè, il bastone di Mosè, l’Arca dell’Alleanza, ecc.). La quaestio 47 è incentrata sulla causa efficiente della passione di Cristo. Innanzitutto ci si chiede: Se Cristo sia stato ucciso dagli altri o da se stesso. San Tommaso spiega che si può essere causa di qualcosa in due modi. Il primo modo si ha quando si agisce direttamente. In questo senso la causa efficiente della morte di Cristo furono i suoi persecutori (i sacerdoti e gli anziani), che «gli arrecarono una causa sufficiente di morte, congiunta all’intenzione di ucciderlo» (STh III, q.47, a.1). Il secondo modo per essere causa di qualcosa si ha quando si permette indirettamente l’effetto, cioè quando non lo si impedisce. In questo senso fu Cristo stesso la causa della sua morte: «poiché l’anima di Cristo non respinse dal proprio corpo il danno inferto, ma colle che la natura del corpo soccombesse in seguito a quel danno, si dice che egli abbia offerto la sua anima o che sia morto volontariamente» (ivi).

De Christo Redemptore
Cristo Redentore – Chiesa San Simeon Piccolo (Venezia)

La morte di Cristo avvenne per obbedienza (a.2) e ciò per tre motivi: in primis, perché come per la disobbedienza di un uomo (Adamo) entrò nel mondo il peccato, così per l’obbedienza di un uomo (il nuovo Adamo, Cristo) si avesse la riparazione (cfr. Rm 5,19); in secondo luogo, perché l’obbedienza è il migliore sacrificio che possa offrirsi a Dio e la Passione fu il sacrificio perfetto della nuova alleanza offerto a Dio da Cristo sull’altare della Croce; infine, perché l’obbedienza fu la causa della vittoria di Cristo, come un soldato non può vincere se non obbedisce al comandante (ivi). Siccome la sua morte avvenne per obbedienza, si deve anche affermare che il Padre consegnò il Figlio alla morte per la nostra salvezza (a.3) e ciò per tre motivi: in primis, perché Dio Padre aveva preordinato dall’eternità la passione di Cristo alla salvezza del genere umano; in secondo luogo, perché ispirò in Cristo la volontà di soffrire per noi; infine, perché non gli evitò la Passione, come Egli aveva chiesto nell’orto degli ulivi, ma lo abbandonò nelle mani dei suoi persecutori (ivi).

Gli ultimi tre articoli della quaestio 47 si soffermano su coloro che hanno ucciso Cristo e sulla loro colpa. Innanzitutto, San Tommaso afferma che, siccome doveva salvare sia i Giudei che i Gentili, «fu conveniente che Cristo iniziasse a patire per mano dei Giudei e poi, dopo che questi lo consegnarono, la sua passione terminasse per mano dei Gentili» (a.4). Il dottore angelico si interroga, poi, sull’avvertenza dei carnefici del Cristo: sapevano che colui che stavano uccidendo era il Figlio di Dio? In questo caso bisogna fare una distinzione. I capi, cioè i sacerdoti e gli anziani, potevano riconoscerlo come il Cristo e come Figlio di Dio, poiché avevano i segni chiari offerti da Cristo stesso. Tuttavia, vollero stravolgere per odio tali segni e non riconobbero il Signore della gloria. Scrive, infatti, l’Apostolo: «Giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria, se lo avessero riconosciuto» (1Cor 2,8). La loro ignoranza, tuttavia, non li scusa dal delitto, poiché era un’ignoranza ricercata (a.5). Quelli del basso ceto, invece, non riconobbero pienamente il Cristo, sia per la loro ignoranza della Scrittura, sia perché erano ingannati dai sacerdoti e dagli anziani. La loro ignoranza, in questo caso, non era colpevole (ivi). Quale fu allora il peccato degli uccisori di Cristo? San Tommaso spiega che per i sacerdoti e gli anziani la condanna di Cristo costituì una colpa gravissima, poiché la loro ignoranza fu volontaria, mentre per il basso ceto la colpa fu grave, ma è mitigata dalla loro ignoranza (a.6). Il dottore angelico afferma che si riferisce proprio alla seconda categoria la parola di Gesù sulla Croce: «Non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Il peccato più scusabile fu, comunque, quello dei Gentili, poiché essi non conoscevano la Scrittura e non avrebbero potuto riconoscere il Cristo (ivi).

La quaestio 48 è incentrata sull’efficienza della Passione di Cristo. Secondo San Tommaso sono quattro le categorie che spiegano la morte di Cristo in riferimento ai suoi effetti. La prima categoria è quella di merito (STh III, q.48, a.1): Cristo ha causato la nostra salvezza nel modo del merito. Infatti, «a Cristo fu donata la grazia non solo in quanto persona singola, ma anche in quanto capo della Chiesa, di modo che essa si riversasse da lui nelle sue membra» (ivi). Ora, l’uomo che soffre per la giustizia merita la salvezza. Di conseguenza, «Cristo, per mezzo della sua passione, meritò la salvezza non soltanto per se stesso, ma anche per le sue membra» (ivi).

La seconda categoria, che spiega gli effetti della morte di Cristo, è quella di espiazione o soddisfazione. Essa si definisce in questo modo: «dà propriamente soddisfazione per un’offesa chi offre all’offeso ciò che questi ama o in modo uguale o di più di quanto odi l’offesa» (a.2). La Passione e la Morte di Cristo furono la più grande soddisfazione che si potesse offrire a Dio, poiché «Cristo, patendo per carità e per obbedienza, offrì a Dio più di quanto esigesse la compensazione di tutte le offese del genere umano» (ivi).

La terza categoria proposta da San Tommaso è quella di sacrificio. Un sacrificio è «qualcosa che si compie per l’onore che è propriamente dovuto a Dio, allo scopo di placarlo» (a.3). Cristo nella sua passione offrì se stesso al Padre e «quest’azione, con cui sopportò volontariamente la passione, fu massimamente gradita a Dio, in quanto proveniva dalla carità» (ivi). In questo senso la Passione di Cristo fu un sacrificio, anzi il sacrificio perfetto, che venne a perfezionare e a sostituire tutti i sacrifici dell’antica alleanza, come afferma l’Apostolo nella Lettera agli Ebrei.

L’ultima categoria proposta da San Tommaso è quella di redenzione. Il termine redentore indica una persona che ne riscatta un’altra dalla schiavitù. Ora, l’uomo era schiavo in due modi: innanzitutto, era schiavo del peccato e del diavolo; in secondo luogo, era schiavo della pena per cui era vincolato alla giustizia divina (a.4). La Passione di Cristo, allora, fu una redenzione, poiché, essendo essa una espiazione sufficiente e sovrabbondante per il peccato e per la colpa del genere umano, «fu come un certo prezzo, mediante il quale siamo stati liberati da tutti i due i vincoli» (ivi). Egli non ci ha espiato il nostro peccato «offrendo del denaro o qualcos’altro di simile, ma offrendo il massimo cioè se stesso» (ivi). Per questo motivo la Passione di Cristo fu una redenzione. 

La quaestio 49 affronta, infine, l’argomento degli effetti della Passione di Cristo. Il primo effetto è la liberazione dal peccato: «la passione di Cristo è la causa propria della remissione dei peccati» (STh III, q.49, a.1). Il secondo effetto è la liberazione dal potere del diavolo: la Passione di Cristo ci ha liberati dal potere del diavolo, poiché ha rimesso i nostri peccati, ci ha riconciliati con Dio e ha vinto definitivamente il potere del diavolo (a.2). Il terzo effetto è la liberazione dalla pena del peccato, poiché «la passione di Cristo fu una soddisfazione sufficiente e abbondante per i peccati di tutto il genere umano» (a.3). Il quarto effetto è la riconciliazione con Dio: la Passione di Cristo ci ha riconciliato con Dio in due modi: in primis, perché «rimuove il peccato, a causa del quale gli uomini diventano nemici di Dio» (a.4); in secondo luogo, perché essa è un sacrificio gradito a Dio e «l’effetto proprio del sacrificio è che con esso sia placato Dio» (ivi). Il quinto effetto è che ci sono state aperte le porte del paradiso. L’uomo era impedito di entrare nel Paradiso a causa del peccato. Con la Passione di Cristo siamo stai liberati sia dal peccato originale sia dai nostri peccati attuali. Per questo si può dire che «mediante la passione di Cristo ci è stata aperta la porta del regno dei cieli» (a.5). Infine, la Passione di Cristo meritò la sua esaltazione: poiché il Cristo con la passione si era abbassato e umiliato nella sua dignità, essa gli meritò l’esaltazione nella risurrezione, nell’ascensione, nel suo sedersi alla destra del Padre e nel suo potere giudiziario (a.6).


Bibliografia

  • Tommaso d’Aquino, Summa theologica (nel testo: STh).

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