Negli ultimi decenni si è assistito a un fenomeno tra gli altri in rapida crescita, la cui origine è molteplice. Parliamo dell’acquisizione delle donne di ruoli sempre più rilevanti all’interno della gerarchia ecclesiastica, ma anche, anzi soprattutto, nella liturgia. Se, tuttavia, nel primo caso costituiscono una sorta di bolla aggiuntiva e separata, nel secondo i limiti sono più confusi, spezzettati, in particolar modo nelle realtà parrocchiali.
Le chierichette, le lettrici, le accolite, ora si sta pensando addirittura alle diaconesse, in barba a ogni condanna dell’archeologismo (cfr. Mediator Dei) e della precisione, correttezza e attestazione storica. Quest’ultimo aspetto potrebbe essere il più rilevante, perché più sfuggente e di difficile comprensione, e legato all’arbitrio dei singoli. Non va dimenticato, infatti, che le parrocchie quasi mai sono isole felici in cui tutto è ordinato e funziona meravigliosamente, ma perlopiù sono entità più o meno autonome in cui il posto di preminenza non è di Dio, ma dell’uomo. Ed ecco che sull’altare, durante la Messa, vediamo bambine e ragazze, se non anche donne, in camice o addirittura in talare e cotta che attendono al Sacrificio: nulla di male, dirà qualcuno, ma sarebbe simpatico osservare come questo qualcuno gestirebbe la volontà di bambine ministranti di emulare i gesti del sacerdote mediante un’ordinazione che mai potrà ottenersi, poiché contro la legge divina. Sempre presenti sono le lettrici, non solo quelle per così dire di tutti i giorni, persone anche di fede che si accostano con riverenza alla Parola di Dio, ma anche quelle istituite, accanto alle accolite. Sono tutti piccoli passi che vogliono arrivare all’inarrivabile, a imitazione delle sataniche chiese “cristiane” non cattoliche, ma ciò, dobbiamo star sicuri, non avverrà mai (cfr. Mt 16, 18). Infine, le ministre straordinarie dell’Eucaristia sono immancabili, segno anche questo della progressiva disaffezione prima di tutto dei sacerdoti a ciò che di più sacro la Chiesa possiede, il suo Signore paziente, morto e risorto. Molti affermano che questi sono segni dei tempi voluti dal Concilio Vaticano II, ma sicuramente questi molti non hanno mai letto una virgola dei documenti conciliari. Mi limito a fare delle rapide considerazioni. Nella Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla sacra liturgia, si ribadisce come il Latino sia la lingua liturgica per eccellenza, da preferire in ogni caso; nell’Istruzione Musicam Sacram si ricorda la primarietà dell’organo a canne e del canto gregoriano; nella Veterum Sapientia, documento di Giovanni XXIII e non conciliare, ma comunque elaborato in quegli anni di fermento ed eccitazione, si legge come la lingua latina debba essere tenuta in primo piano, amata e studiata, e si auspica una maggiore conoscenza dei sacri ministri di questo idioma. Non ho parlato di donne, non perché il Concilio non le abbia considerate, ma poiché coloro che difendono le derive degli ultimi anni hanno costruito una casa sulla sabbia, su documenti e decisioni della Chiesa che esistono solo nella loro mente. La degenerazione liturgica, prima che dall’alto, parte dal basso, dall’iniziativa personale tante volte apertamente condannata da Benedetto XVI, dai novatores che in questi tempi non vogliono la glorificazione di Dio e la salvezza delle anime, bensì l’opposto di entrambe: l’esaltazione dell’uomo e dei suoi desideri e il materialismo.