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Esegesi storica: il Risorgimento – Parte II

Uccisero i veri Padri del popolo italiano (i Re legittimi) e ne stuprarono la Madre (la Chiesa): questa fu l’opera di quei quattro figli di Satana che sono tutt’oggi chiamati “padri della patria”. Furono traditori, assassini, corrotti e corruttori, spietati distruttori di quei Regni preunitari che erano frutto della secolare società e Tradizione Cattolica. Unire l’Italia fu una scusa che permise alla Massoneria di colpire a morte la Chiesa.

«Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!». Questa frase fu parte di un discorso pronunciato da Vittorio Emanuele II nel 1859, prima di partire per la seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria (la prima fu nel 1848, dove si verificarono le famose Cinque Giornate di Milano).  I piemontesi, organizzato il loro esercito e forti del supporto di Napoleone III, cominciarono la marcia per “liberare i territori oppressi”. La realtà, però, era ben diversa. Non vi era nessun “grido di dolore” che Vittorio Emanuele II potesse udire dal popolo italiano. Non vi era alcun tiranno che opprimesse le genti e impedisse loro una vita serena. 

La campagna militare piemontese iniziò il 27 aprile del 1859; parallelamente all’avanzata dell’esercito si colloca anche la spedizione dei Mille, guidata da Garibaldi. Quest’ultimo era in pieno accordo con Cavour: la storiografia più comune afferma che era partito di sua iniziativa e fosse in contrasto con il re Vittorio Emanuele II, ma ciò è falso. Garibaldi fu in stretto contatto con Cavour e fu grazie al denaro piemontese, ed inglese, che i Mille partirono il 5 maggio 1860 da Genova e sbarcarono a Marsala, per conquistare il Regno delle Due Sicilie.

Il primo stato italico invaso dai rivoluzionari fu il Ducato di Modena, governato dal Duca Francesco V, figlio di Francesco IV e Maria Beatrice di Savoia. Egli, della stessa tempra e Fede del padre, consapevole che il suo piccolo esercito non avrebbe mai potuto arrestare gli invasori, scelse di risparmiare la guerra al suo popolo e fuggì in Veneto, territorio ancora in mano austriaca, alleata del ducato, e quindi per lui non pericoloso. Qui si colloca l’episodio eroico della Brigata Estense: l’esercito modenese, formato da circa 3000 uomini, si rifiutò di abbandonare il suo sovrano e decise volontariamente di accompagnarlo in esilio. Fino al 1863, anno dello scioglimento della Brigata, i soldati vissero in miseria, non avendo più uno stipendio, con grandi difficoltà nel riuscire a procurarsi il cibo, la biancheria o gli stivali: spesso i fanti chiesero aiuto economico agli ufficiali, miseri anch’essi, i quali sempre si prodigarono per i loro sottoposti, spesso ottenendo dei magri risultati. Alcuni di loro morirono in esilio, lontani dalle loro famiglie. Nonostante tutte queste sofferenze altri si aggiunsero spontaneamente durante gli anni, portando la Brigata alla massima estensione di 5000 effettivi; mai venne meno la fedeltà di questi uomini al loro sovrano, che stimavano e amavano e che desideravano potesse ritornare a governare il suo ducato, anche se il prezzo di questo fu la loro vita. Pur senza sparare un singolo colpo, questi soldati combatterono una battaglia importantissima: la dimostrazione concreta che valesse la pena di soffrire grandemente e morire per la Fede, per una vita virtuosa e per la società creata dalla Tradizione Cattolica, in quanto traduzione terrena del Regno di Dio, seppur imperfetta. La brigata venne sciolta perché i conquistatori liberali non potevano tollerare un esempio luminosissimo di virtù e di totale dedizione verso quei regnanti che loro definivano “oppressori”: la propaganda e la diplomazia piemontese distrussero la reputazione della Brigata Estense, costringendo l’Austria a fare pressioni su Francesco V per lo scioglimento.  Dopo questi eventi, Francesco V operò ancora sul piano politico e rimase un importantissimo punto di riferimento per tutti i cattolici italiani aderenti alla visione sociopolitica della Tradizione della Chiesa.

Dopo che Vittorio Emanuele II ebbe conquistato Modena e la Lombardia, fu Francesco II di Borbone e il suo Regno delle Due Sicilie a subire l’invasione garibaldina, senza previa dichiarazione di guerra. Francesco II (oggi Servo di Dio, con causa di beatificazione aperta nel 2020) era figlio di Beata Maria Cristina di Savoia, sorella di Maria Beatrice. Francesco V, quindi, fu suo cugino. Sua moglie fu Maria Sofia di Baviera, sorella di Elisabetta di Baviera, meglio conosciuta come Sissi, moglie dell’imperatore Francesco Giuseppe. Nel 1860 Francesco II aveva 24 anni ed era salito al trono l’anno precedente. Egli si trovò a combattere contemporaneamente sia lo sbarco garibaldino in Sicilia, sia l’invasione piemontese a Napoli; su entrambi i fronti fu tradito dai generali del suo esercito e dai ministri del suo regno.

Garibaldi e i Mille non avrebbero mai potuto sconfiggere sul campo l’esercito Borbonico, che era ben organizzato e ben equipaggiato; furono i soldi e la criminalità le vere armi di Garibaldi: molti ufficiali siculi si fecero corrompere, fuggendo dal campo di battaglia anche mentre stavano per vincere, come a Calatafimi. Garibaldi fu un vero e proprio delinquente, un criminale della peggior specie: “L’Eroe dei due Mondi” era già stato denunciato per stupro e schiavismo nell’America Latina. Sbarcato in Sicilia, approfittò della piccola criminalità: ottenne guide esperte della geografia locale per la spedizione e comprò la lealtà di questi uomini, poi lasciati a governare i paesi da lui conquistati. La mafia odierna nasce proprio con Garibaldi: il denaro pagato ai criminali e le posizioni di potere concesse a questi personaggi li renderanno un tutt’uno con le entità statali del Sud del futuro Regno d’Italia: l’unica cosa che contava era l’obiettivo di arrivare alle mura di Roma il prima possibile, perseguito ad ogni costo. Le battaglie “di liberazione” furono ruberie e scorribande senza pietà; nei territori conquistati regnavano furti e violenze, soprusi e ingiustizie. Garibaldi stesso disse: «se esistesse un’armata del demonio, che combattesse Chiesa e preti, mi arruolerei nelle sue file». Luciano Manara, capo dei Bersaglieri lombardi lo definì così: «Garibaldi è una pantera e i suoi uomini una banda di briganti».

I garibaldini conquistarono la Sicilia e passarono poi alla terraferma, avvicinandosi a Napoli; il 6 settembre 1860, anche Francesco II scelse di non versare sangue italiano, dietro consiglio del suo Ministro degli Interni Liborio Romano, e si ritirò a Gaeta. Il 7 settembre Garibaldi entrò in Napoli. Chi era Liborio Romano? Fu un esponente politico di spicco a Napoli, dove già da giovanissimo insegnava nell’università della città. Fu un frequentatore della Carboneria e della Massoneria. Nel 1848 partecipò ai moti di rivolta liberali, venendo catturato ed imprigionato. Implorò pietà, fece finta di giurare fedeltà al re e fu scarcerato; tornò in politica, riuscendo a farsi eleggere come ministro del Regno delle Due Sicilie. Di facciata si proclamava leale suddito del Regno, ma nell’oscuro fu collaboratore di Cavour e di Garibaldi, condividendo con loro l’obiettivo della distruzione della Chiesa. Il consiglio di abbandonare Napoli fu l’ennesimo tradimento che Liborio Romano fece nei confronti di Francesco II: diede quel suggerimento conoscendo la profonda Fede e purezza d’animo del sovrano, sapendo che lo avrebbe ascoltato; così facendo liberò la strada ai suoi infernali compagni. Il 21 ottobre 1860 i camorristi, alleati di Garibaldi, impegnati ora nel neonato corpo di Guardia di Pubblica Sicurezza (con compiti simili a quelli di polizia), furono schierati armati per presiedere il voto del plebiscito di annessione al Regno d’Italia eseguito in modalità palese: i votanti dovevano esprimere pubblicamente la loro preferenza davanti a questi personaggi. Dopo il plebiscito, le violenze dei camorristi e dei garibaldini non ebbero più limite. Liborio Romano, terminate queste vicende e creato il Regno d’Italia, ne diverrà deputato nel 1861.

A Gaeta, Francesco II fu attaccato dall’esercito piemontese: la città era fortificata e fu messa sotto assedio. Durante i combattimenti il giovane Re dimostrò un grande valore, tanto da suscitare forti impressioni anche all’estero. Sua moglie assisterà i soldati feriti durante la battaglia, come una crocerossina, e guadagnerà il soprannome di “Eroina di Gaeta”. Il governo piemontese, prima di iniziare l’assedio, invitò i sovrani a esporre una bandiera nera sul palazzo che avevano scelto come residenza, per evitare di ucciderli nei bombardamenti; Maria Sofia scelse, invece, di esporre la bandiera nell’ospedale da campo, preservando i soldati feriti da ulteriori attacchi. I sabaudi furono spietati nel bombardare la città: presero di mira obiettivi civili oltre i militari e si ebbero centinaia di morti tra la gente comune. L’assedio terminò il 13 febbraio 1861 con la firma della resa da parte di Francesco II; sia quel giorno, ma anche nei giorni precedenti, nei quali si stava negoziando un armistizio, il generale Cialdini non smise mai di bombardare Gaeta asserendo che, sotto i colpi di cannone, i difensori avrebbero più facilmente firmato una capitolazione totale. Dopo la resa, Francesco II si rifugiò a Roma insieme alla moglie; abdicò definitivamente il 20 marzo 1861. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II si proclamò primo re d’Italia, mentre a Civitella del Tronto i combattimenti erano ancora in corso. Una nota su queste date: Vittorio Emanuele II commise un peccato di lesa maestà divina, essendosi eletto re per propria volontà mentre il legittimo sovrano, incoronato da Dio, non aveva ancora rinunciato a questo mandato; siamo di fronte ad un uomo che spodesta Dio e che pretende di poter creare una società senza il suo Signore. 

Garibaldi, Liborio Romano, Massimo D’Azeglio, Mazzini; così come Ciro Menotti, rivoluzionario nel Ducato di Modena; Ettore Ferrari, politico del neonato Regno d’Italia, scultore che realizzò la famosa statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori a Roma; Nino Bixio, vice di Garibaldi, che sparò sugli stessi siciliani che lo accolsero: tutti coloro che parteciparono attivamente, o supportarono l’idea di un’Italia unita, appartenevano alla Massoneria. È di Massimo d’Azeglio, senatore del Regno di Sardegna e Primo Ministro precedente a Cavour, la famosa frase: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani». Il significato nascosto era quello di azzerare la società cattolica tradizionale e costruire la nuova società liberale senza Dio. A riguardo dell’affiliazione del conte di Cavour ho ritrovato dei piccoli indizi sul sito ufficiale della Loggia Ausonia di Torino. Consiglio la visione del mensile Erasmo, edito dal Grande Oriente d’Italia, numero 8 del settembre 2022, disponibile liberamente sul loro sito ufficiale: vi si possono trovare numerosissimi richiami al 20 settembre 1870, giorno della conquista di Roma con la Breccia di Porta Pia. Consiglio anche la visione del secondo giornaletto del GOI, MassonicaMente, numero 15 del 2019.
Tutti questi Massoni agirono secondo il loro principio del “solve et coagula”: sciogli e ricomponi. La Chiesa Cattolica era un forte elemento unitivo e ordinatore della società e per questo andava disciolta; una volta installato il caos e la rivoluzione nella società, la Massoneria avrebbe avuto campo libero per ricostruire l’umanità secondo i propri principi: è il processo che si sta verificando anche oggi in tutto il mondo, iniziato nei primi anni del 1800.

Caro lettore, ti confido che ho pianto più volte nella stesura di questi due articoli: sia per la grande commozione per il comportamento eroico dei cattolici coinvolti, sia per l’indignazione per ciò che è stato fatto alla Chiesa, alla Fede, alla Tradizione e alla società fondata su di queste. L’ordine è una necessità vitale e questo è possibile solo in una istituzione di stampo cattolico, come furono questi regni. Davvero a me sembra di vedere degli Alter Christi in Vittorio Emanuele I, Carlo Felice e Francesco II. Non sono solo nomi scritti su una pagina di un articolo storico: sono anime, persone che potremo incontrare in Cielo. Non posso giudicare le loro azioni personali, ma ciò che fecero per difendere la Fede ha dell’eroico; la loro forza di volontà ebbe qualcosa che trascende l’umano, specialmente quello dei nostri giorni, inghiottito dal materialismo. È innegabile che questi sovrani abbiano dato un esempio luminosissimo di vera Fede, vissuta fino al sacrificio di loro stessi pur di difendere Cristo, la Verità e i popoli loro affidati. Le loro opere (non ho potuto inserirle tutte, per lunghezza degli articoli) sono una testimonianza fortissima dell’importanza di Gesù nella vita personale e anche nella vita societaria: senza di Lui regna la rivoluzione, letteralmente. Solo caos, distruzione, morte, tradimenti, odio, violenze e corruzione. Sono felice di sapere che in Paradiso potrò incontrare uomini politici di un tale calibro, che credettero fermamente e onorarono il mandato loro conferito, pur non avendo mai visto il loro Re in carne ed ossa. Sono felice di sapere che possono pregare per noi e che, con le nostre preghiere, alcuni di loro potranno essere proclamati Santi e spargere ancora di più la loro luce all’interno della Chiesa. 

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