Giudaica perfidia: l’orazione per gli Ebrei

Una preghiera controversa, mal interpretata, mal tradotta: stiamo parlando della celebre orazione per gli Ebrei prevista dalla liturgia del venerdì santo. Non pochi sono i problemi, infatti: alcuni polemisti hanno addirittura visto qui le giustificazioni teologiche alla Shoah.

Una preghiera controversa, mal interpretata, mal tradotta: stiamo parlando della celebre orazione per gli Ebrei prevista dalla liturgia del venerdì santo. Non pochi sono i problemi, infatti: alcuni polemisti hanno addirittura visto qui le giustificazioni teologiche alla Shoah.

Per capire a pieno quali siano state le questioni intorno ad essa è necessario analizzare il sostrato teologico di riferimento e la liturgia in cui essa è situata [1].

Il popolo d’Israele era l’eletto di Dio: tutto l’Antico Testamento è la storia della prima alleanza; nel nome di Jahvè gli Ebrei vincono le guerre, conquistano i territori, offrono i sacrifici, nell’attesa del Messia. Colui che i patriarchi hanno acclamato e di cui i profeti hanno parlato (cfr. antifona ambrosiana Omnes Patriarchae) è poi venuto sulla terra: Gesù Cristo Salvatore, fondatore della nuova ed eterna alleanza nel Suo sangue; la Chiesa diventa verus Israël. La precedente, quindi, è annullata: la salvezza non è più data dall’appartenenza etnologica e dal segno carnale della circoncisione, ma dall’adesione, tramite il sacramento del battesimo, alla vita di grazia nella fede trinitaria. Da ciò consegue una necessità impellente per il popolo ebraico che desidera salvarsi: andare oltre l’Antico Testamento (non rifiutare la Torah, ma giungere al suo perfetto compimento, perché la grazia ha superato la legge) e riconoscere Gesù Cristo come Messia.

Ora, queste espressioni potranno sembrare a qualcuno come esempio di antisemitismo: nulla di più falso! L’antisemitismo si basa su una visione protestante che lega intrinsecamente il comportamento di un individuo (e quindi anche la sua religione) con la sua origine etnica. Non è un caso, infatti, che il nazismo perseguitò non solo gli ebrei osservanti, ma anche coloro che avevano semplicemente origini giudaiche (si pensi al caso di Edith Stein, che nel 1942 si era già convertita ed era divenuta monaca carmelitana).

Desiderare, invece, la conversione di qualcuno non è violenza od odio, ma la più grande carità: quella della Verità. È con questo spirito che la Chiesa ha pregato e continua a pregare per la salvezza del popolo ebraico.

Celebrazione del Venerdì Santo, prima della riforma di Pio XII

La preghiera è situata nel cuore dell’anno liturgico, proprio all’interno del Sacro Triduo. Illustriamo quindi la funzione secondo le rubriche del Messale di Pio V, rimaste integre fino alla nefasta riforma pacelliana di cui parleremo in seguito.

Il venerdì santo (Feria Sexta in Parasceve) è caratterizzato dall’assenza della Messa vera e propria: al suo posto si celebra, secondo la dizione più antica, la Missa Presanctificatorum. I sacri ministri giungono all’altare con tutti i paramenti, di colore nero, e si prostrano a terra davanti all’altare. Dopo le letture, hanno luogo le preci solenni, l’adorazione della Croce e la comunione del solo celebrante con le Sacre Specie consacrate il giorno precedente e portate in solenne processione.

È nel momento delle preci che va a collocarsi l’orazione incriminata. Dopo aver pregato per la pace e l’unione della Chiesa, il papa, il clero e il popolo, l’imperatore, i catecumeni, la liberazione dai mali, il ritorno di eretici e scismatici, la penultima recita così: 

Oremus et pro perfidis Judaeis ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum; ut et ipsi agnoscant Jesum Christum, Dominum nostrum. [senza Levate né Flectamus genua, subito si prosegue]

Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam judaicam perfidiam a tua misericordia non repellis: exaudi preces nostras, quas pro illius populi obcaecatione deferimus; ut, agnita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur.

Possiamo facilmente individuare i sintagmi che hanno creato imbarazzo: pro perfidis Judaeis e judaicam perfidiam. Dove sta il fraintendimento? Non dobbiamo farci ingannare dal significato dell’aggettivo perfidus: la filologia della parola ci spiega infatti che l’espressione perfidus ha una doppia etimologia: da un lato abbiamo foedus come bruttezza morale, e quindi perfidus è il malvagio; dall’altro lato, quello che i Padri hanno applicato qui, foedus significa patto, e il perfidus è colui che viene meno alle promesse, manca ad una fede intesa in senso teologico; in sostanza, diventa sinonimo di infidelis. In tal senso, gli Ebrei vengono così caratterizzati per essere venuti meno alle profezie bibliche che anticipavano Cristo. Del resto, così commenta S. Agostino il salmo 54:” Iniquus est qui non habet fidem; quod ergo hic ait iniquitatem, perfidiam intellige”. Questa è anche la linea espressa nella bolla Coeca et obdurata hebraeroum perfidia di Clemente VIII.

Formula più antica senza genuflessione

Questa preghiera è nata, secondo alcuni studiosi, nel VI secolo, attingendo al testo Περὶ πάσχα di Melitone di Sardi (II secolo). Secondo altri, vi fu l’esplicita volontà di rispondere, con carità cristiana, a ben altre espressioni presenti nella Birkat Ha Minin, come la seguente: “Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell’orgoglio; e periscano in un istante i nozrim [i nazareni] e i minim [gli eretici]; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi” [2]. Si capisce con quale spirito la Chiesa abbia risposto: espressioni che forse, oggi, possono sembrarci un po’ forti ma che possiamo sintetizzare con questa espressione Francesco Cancellieri, studioso delle cerimonie pontificie “rimproveri, ma paterni e affettuosi”. [3]

Appurata l’onestà dei compilatori del Messale Tridentino, dobbiamo considerare come l’orazione veniva tradotta nei messalini e nei foglietti per i fedeli. Molti, infatti, travisarono il senso originario della parola e tradussero con “perfidi”, offrendo il fianco alle critiche: così Pio Alberto Del Corona nel 1893, Edmondo Battisti nel 1921.

Altri, invece, misero in luce l’infedeltà: nel 1915 il benedettino Schuster pubblicò, per i tipi della Tipografia poliglotta vaticana, un libretto, accompagnato dalla benedizione di Benedetto XV, in cui venivano riportate e tradotte le orazioni del venerdì santo: i sintagmi erano tradotti con “infedeli giudei” e “non scacci neppure gli stessi giudei” [4].

Mentre nell’Europa laica serpeggiavano sentimenti (quelli sì) di antisemitismo, un gruppo di chierici, insieme alla convertita dall’ebraismo Francisca von Leer, fondarono l’associazione Amici Israël, dedita alla rimozione delle immagini negative sul popolo ebraico affinché essi potessero abbracciare con più facilmente la fede cristiana. Nel 1928, essi domandarono a Pio XI la revisione della prece incriminata; il pontefice girò la questione alla Sacra Congregazione dei Riti, che consultò Schuster come perito: egli rispose dicendo che era necessario eliminare tutto ciò che poteva generare inutile superstizione nel popolo (già condannata da Gregorio Magno) come la mancata genuflessione [5]. Il Sant’Uffizio si oppose però: secondo il card. Merry del Val e Padre Sales bisognava invece accettare il termine perfidus in quanto etimologicamente corretto e non aprire la strada a riforme di riti così antichi. Su quest’ultimo punto videro in modo estremamente corretto.

Un’apologia del termine venne nel 1931 dal gesuita Louis Escoula sulla Revue apologétique: erano le traduzioni in volgare a fraintendere un significato teologicamente corretto. Mentre intanto si continuavano a produrre opuscoli e sussidi; il 10 giugno 1948, interrogata in merito, la Sacra Congregazione dei Riti rispose affermativamente alla richiesta di poter tradurre perfidus/perfidia con infedeli/infedeltà.

Dopo il dramma della persecuzione nazista, alcuni studiosi ebrei chiesero a Pio XII di cambiare o di sopprimere l’orazione perché, secondo alcuni, addirittura correa dello sterminio. Molto più cauta la posizione del sacerdote convertito dall’ebraismo John Oesterreicher, che sosteneva la necessità di adeguate traduzioni e spiegazioni, anche in merito alla mancata genuflessione.

La notazione dopo la riforma Pio XII

La riforma pacelliana del 1955, a cui Padre Bugnini e Padre Braga stavano già lavorando da alcuni anni per ordine di Pio XII portò a scardinare la Messa dei Presantificati e a reintrodurre, soprattutto su pressione del card. Bea, la genuflessione, uniformandosi alle altre otto orazioni.

Nel giro di pochi anni, a questo punto, mutarono molte cose: nel 1959 Giovanni XXIII soppresse i termini perfidi/perfidia: ciò fu apprezzato (e, per certi versi, desiderato) da Jules Isaac, che avrà poi un grande impatto su Nostra Aetate. Ma il grande cambiamento avvenne col messale montiniano: l’orazione del 1970 è molto diversa dalla precedente, e così recita:

Oremus et pro Iudaeis, ut, ad quos prius locutus est Dominus Deus noster, eis tribuat in sui nominis amore et in sui foederis fidelitate proficere. Omnipotens sempiterne Deus, qui promissiones tuas Abrahae et semini eius contulisti, Ecclesiae tuae preces clementer exaudi, ut populus acquisitionis prioris ad redemptionis mereatur plenitudinem pervenire.

Quest’orazione riflette un cambio d’atteggiamento: se è giusto evitare forme di discriminazione e di violenza, è altrettanto giusto e doveroso avere il dovere di predicare la verità. Se fioriscono momenti di preghiera comune cristiano-ebraica, come si può annunciare che Gesù Cristo è la vera via? 

La Chiesa ha quindi pregato nel modo corretto: non per la rovina e la perdizione dei Giudei, ma per la loro salvezza; la giudaica perfidia non consiste in riproporre stereotipi di cui facciamo volentieri a meno, ma nell’indicare con franchezza che l’antica alleanza è venuta meno, e Cristo è l’unico, necessario e universale Salvatore.


Bibliografia di riferimento

G. Menozzi, Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, Bologna, Il Mulino, 2014 [il testo è stato utilizzato per attingere alla vasta mole documentaria; se ne ricusa l’ottica relativistica e indifferentista sul piano religioso]


Note:

  1. il presente è voluto: diverse comunità (non necessariamente sedevacantiste) usano ancora questo antico formulario.
  2. tratto da J. Maier, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, Paideia, 1994; brano presente in un frammento, in originale ebraico, della Geniza del Cairo.
  3. tratto da F. Cancellieri, Descrizione delle funzioni della settimana santa nella cappella pontificia, Roma, Luigi Perego Salvioni, 1789.
  4. tratto da I. Schuster, Le sacre stazioni quaresimali secondo l’ordine del messale romano, Roma, Tipografia poliglotta vaticana, 1915.5: già citata prima, diamo qui spiegazione: per motivi non chiariti (indagati soprattutto da Canet e da Peterson) quest’orazione non presenta il flectamus genua col relativo gesto; ciò è stato interpretato come una risposta alle finte adorazioni rivolte a Cristo durante la Passione, compiute però dai soldati romani (cfr. Mt XXVII 27-29)

Questo articolo è tratto da
Templum Domini 8 | Settembre-Ottobre 2021

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