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I vizi capitali: l’avarizia

«La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò. Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non temerò. Che mi potrà fare l'uomo?». Eb. 13, 5-6.

Nel tessuto della fede cristiana, l’avarizia si profila come uno dei peccati capitali, ovvero quelle inclinazioni nefaste che alienano l’anima dal raggio della grazia divina. Essa è incarnazione dell’amore smodato e dell’aspirazione incessante ad accumulare ricchezze, tramutando i beni terreni da meri strumenti a scopi ultimi dell’esistenza.

Tale vizio si rivela particolarmente insidioso, poiché si maschera spesso di virtù quali la prudenza, l’oculatezza o la lungimiranza, giustificando così l’accumulo eccessivo sotto il velo della responsabilità. Il decimo comandamento si interpone con autorità in questo contesto, evidenziando le gravi implicazioni spirituali di tale condotta. Il decimo comandamento proibisce l’avidità e il desiderio di appropriarsi senza misura dei beni terreni; vieta la cupidigia sregolata, generata dalla smodata brama delle ricchezze e del potere in esse insito.

Proibisce anche il desiderio di commettere un’ingiustizia, con la quale si danneggerebbe il prossimo nei suoi beni temporali: «La formula: Non desiderare è come un avvertimento generale che ci spinge a moderare il desiderio e l’avidità delle cose altrui. C’è infatti in noi una latente sete di cupidigia per tutto ciò che non è nostro; sete mai sazia, di cui la Sacra Scrittura scrive: L’avaro non sarà mai sazio del suo denaro (Qo 5,9) ». [2]

Sua Santità Papa Benedetto XVI ha mirabilmente illustrato come i santi costituiscano la più eccelsa difesa della fede cristiana. Le loro vite, permeate di un amore radicale per Dio, manifestano concretamente l’opera trasformatrice della grazia divina nel cuore dell’uomo. I santi abitano in un distacco serafico dai beni terreni, mostrando che è possibile vincere l’attaccamento al materiale e condurre un’esistenza di autentica libertà spirituale. Questo distacco non rappresenta un disprezzo per il mondo materiale, bensì il segno di un cuore interamente consacrato a Dio, che fruisce dei beni di questo mondo senza esserne soggiogato.

Il Nuovo Testamento, per mezzo di San Paolo, prospetta una visione limpida e diretta dell’avarizia, descrivendola come radice di tutti i mali. «L’amore del denaro è la radice di tutti i mali»[3], una dichiarazione incisiva e provocante, che enfatizza come l’amore disordinato per il denaro conduca inevitabilmente a compromessi spirituali, distogliendo l’attenzione dalle ricchezze eterne verso quelle effimere. San Paolo, nelle sue epistole, ammonisce i fedeli sul rischio di lasciare che il desiderio di ricchezza prevalga sull’obbedienza ai comandamenti divini e sull’amore verso se stessi e il prossimo. San Francesco di Sales, fin dal XVI secolo, osservava quanto fosse arduo per i cristiani riconoscere e confessare questo peccato: «Nessuno al mondo vorrà mai ammettere di essere avaro! Tutti negano di essere contagiati da questo tarlo che inaridisce il cuore. Chi adduce a scusa il pesante fardello dei figli, chi la necessità di crearsi una solida posizione. Non si possiede mai abbastanza; si trova sempre un motivo per avere di più: quelli poi che sono avari più degli altri non ammetteranno mai di esserlo, e il bello è che, in coscienza, sono assolutamente convinti di non esserlo! L’avarizia è una febbre maligna, che più è forte e bruciante e più rende insensibili». [4]

San Giovanni della Croce aggiunge una dimensione ulteriore alla comprensione dell’avarizia, esplorando la cupidigia spirituale. Egli sottolinea come alcuni fedeli siano insaziabili nel ricercare libri di spiritualità, dimostrando un attaccamento eccessivo non solo al contenuto ma anche all’estetica e al numero di tali opere. Anche San Giovanni critica questa forma di attaccamento affermando: «È molto contraria alla povertà di spirito», come esposto nel suo trattato La Notte oscura.[5] L’invocazione della Chiesa a superare l’avarizia è un appello a una profonda conversione del cuore. La vita dei santi e l’insegnamento dei Padri della Chiesa ci esortano che solo un cuore liberato dal desiderio smodato delle ricchezze può aspirare alla vera povertà di spirito, che è beatitudine e sorgente di autentica libertà.

Questa libertà si manifesta in una generosità illimitata, in opere di carità e in un amore senza riserve che ricerca Dio sopra ogni cosa. In conclusione, l’avarizia è più di un semplice attaccamento materiale; è una condizione spirituale che riflette un disordine interiore profondo. La sfida per ogni cristiano è quella di esaminare sinceramente il proprio cuore, discernendo tra il necessario e l’eccessivo, e di ricercare quella perfezione di vita che si trova solo nel donare, non nell’accumulare. La chiamata evangelica alla povertà di spirito non è solo un ideale ascetico, ma una realtà pratica di vita quotidiana, dove ogni decisione riflette una preferenza per i tesori del Cielo rispetto a quelli della terra.


  1.  Eb. 13, 5-6.
  2. CCC, numero 2536.
  3.  1Tm 6,10
  4. San Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota, Libro III, cap. 14.
  5. San Giovanni della Croce, La notte oscura, Libro I, cap. 3, n. 1.

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