Il lavaggio dei lini e dei vasi sacri

Breve descrizione riguardo gli usi tradizionali per la cura di alcuni oggetti sacri.

Il Concilio Vaticano II definisce la liturgia della Chiesa come culmen et fons [1] della vita di un cattolico. La partecipazione ai Santi Misteri è non solo un precetto, bensì una necessità senza la quale il cristiano non potrebbe vivere («sine dominico non possumus» [2]).

Al fine, però, di celebrare degnamente la Santa Messa si rende necessaria anche l’organizzazione e la preparazione di molti aspetti strettamente pratici ma fondamentali per un corretto svolgimento della celebrazione.

In verità, la Chiesa ha sempre avuto la cura di inserire nelle rubriche dei messali tutte le indicazioni pratiche necessarie con anche eventuali risposte a dubbi che sarebbero potuti insorgere. Ad esempio, nella sezione De defectibus in celebratione Missarum occorrentibus, presente in tutti i messali fino alla riforma, vi è un lungo elenco di possibili mancanze e perfino incidenti che potrebbero accadere con tanto di puntualissime indicazioni su come comportarsi. Queste istruzioni, tipiche dell’usus antiquior, sono però certamente un valido orientamento anche per la Messa nella forma ordinaria.

Seguendo questo spirito, intendiamo richiamare all’attenzione del lettore quegli usi propri di un tempo che, per quanto sovente oggigiorno disattesi, costituiscono valide indicazioni e, nello specifico, vogliamo soffermarci su un aspetto da molti trascurato o messo in secondo piano, ovvero la pulizia dei vasi e dei lini sacri. In primo luogo, è doveroso ricordare che i vasi sacri erano tradizionalmente consacrati dal vescovo, mentre i lini (la palla e il purificatoio) da lui benedetti. Oggi, invece, non è necessario che tali riti siano compiuti dal vescovo in persona. A tal proposito, nel Messale si afferma che «Tra le cose richieste per la celebrazione della messa, sono degni di particolare rispetto i vasi sacri; tra questi, specialmente il calice e la patena, nei quali vengono offerti, consacrati e consumati il pane e il vino»[3] e nel Benedizionale si aggiunge che «Qualunque sacerdote può benedire il calice e la patena, purché l’uno e l’altra siano fatti secondo le disposizioni date in “Principi e norme per l’uso del Messale Romano”, n. 290-2953.[4]» Nonostante ciò, nel Pontificale Romano la benedizione dei vasi sacri figura ancora come una particolare Benedizione Episcopale, a motivo proprio di quanto si è detto finora.

Il fatto che venisse attribuito loro il carattere proprio della sacralità impediva che tali oggetti potessero essere maneggiati da chiunque. Per quanto riguarda i vasi, solo il sacerdote aveva il permesso di toccarli e, infatti, era lui a doverli portare all’Altare prima della Messa e a riportarli in sacrestia una volta ultimata. Era tuttavia consentito ai parroci, al fine di garantirne la corretta preparazione, concedere la possibilità di maneggiarli a persone fidate le quali dovevano avere l’accortezza di coprirsi le mani con un velo. Per quanto riguarda la pulizia, invece, il problema era relativamente minore, poiché teoricamente veniva già svolta dal sacerdote durante la purificazione. Se il prete non fosse stato sufficientemente accorto e non avesse visto eventuali frammenti rimasti sulla patena o nel calice, sarebbe stato ugualmente suo compito provvedere ad un’adeguata pulizia in sacrestia con l’assunzione, da parte sua, delle parti rimanenti delle Sacre Specie effettuando uno sciacquo con acqua. L’unico compito rimanente che, quindi, poteva essere affidato ai laici (o a delle religiose) era ovviamente la lucidatura, la quale poteva tranquillamente essere svolta come su qualsiasi altro oggetto d’oro o d’argento, purché si adoperasse il massimo riguardo e si mantenesse l’accortezza di evitare contatti diretti.

Per quanto riguarda i lini da altare, invece, pur essendo anch’essi benedetti, si chiedeva che, fatte salve le solite necessità di preparazione, venissero maneggiati almeno da un suddiacono. Ovviamente, però, nelle parrocchie era assai rara la presenza di tale ministro e i lini, a differenza dei vasi, necessitavano per forza di cose di una frequenza di lavaggio maggiore. Si pensi ad esempio alla palla che, costantemente a contatto col bordo del calice, era uno degli oggetti con maggior rischio di sporcarsi, ma anche il purificatoio, utilizzato proprio per asciugare l’interno dei vasi, nonché il corporale (sopra il quale – ricordiamo – a differenza di quanto avviene oggi durante la Messa di Paolo VI, veniva posata direttamente l’Ostia consacrata) sul quale non era insolito cadessero delle gocce di vino o, se dopo la Consacrazione, di Sangue del Signore. Il parroco, come nel caso dei vasi, era quindi autorizzato a delegare a dei laici (o, più spesso, delle laiche) di cui si fidava il compito di provvedere alla pulizia. Il problema che, tuttavia, assai spesso poteva sorgere era il ritrovamento di piccoli frammenti del Corpo del Signore ormai incastrati nel tessuto o, altrimenti, macchie non asciutte del Sangue di Cristo. Prima di provvedere, pertanto, a un lavaggio vero e proprio, era necessario che tali lini venissero immersi in acqua al fine di sciogliere in essa eventuali pezzetti eucaristici. Solo quando si era certi che la sostanza potesse considerarsi ormai totalmente disciolta e, quindi, escludere la permanenza della Presenza Reale, l’acqua poteva essere gettata via; essa, però, doveva necessariamente confluire nel sacrario. Il sacrario era una botola presente sul pavimento delle chiese oppure un lavandino ad imbuto presente in sacrestia che metteva a diretto contatto con la terra di fondazione della chiesa, la quale era stata benedetta dal vescovo in occasione della posa della prima pietra. In esso andava gettata anche l’acqua residua dell’ampollina o quella usata per lavarsi le mani, poiché benedetta, ma non il vino pre-consacrato. In questo modo, qualsiasi cosa che fosse stata consacrata tornava in contatto con la creazione divina. Dopo la riforma conciliare, molti sacrari sono stati murati o, peggio ancora, collegati con gli scarichi dei lavandini, quindi in caso di incertezza è opportuno utilizzare come sacrario un pezzo di terra attiguo alla chiesa da segnare con una croce. 

Ultimate tutte queste premure, si poteva procedere al lavaggio vero e proprio e, per ultima cosa, si applicavano i trattamenti per garantire ai lini (specialmente la palla e il corporale) la rigidità richiesta. Se è procedimento comune l’uso di amido, frutti ben migliori venivano ottenuti sottoponendoli al trattamento con l’albume dell’uovo, il quale garantiva anche miglior impermeabilità, con la conseguenza di rendere più evidente la presenza di eventuali frammenti. In questo caso si poteva procedere anche all’applicazione di profumo per eliminare gli odori dell’uovo e i lini erano finalmente pronti all’uso.

Da quanto esposto si evince, quindi, che la Chiesa nei secoli ha sempre prestato molta cura ad ogni elemento che orbitasse anche solo lontanamente nella sfera della liturgia. Siamo ovviamente consapevoli di come i tempi siano mutati, di come la quasi totalità delle chiese minori non abbia più addetti fissi alla sacrestia e di come sia complicato trovare volontari che si facciano carico di tutti questi piccoli ma importanti passaggi. Tuttavia, sarebbe bene che, nella pulizia dei vasi e dei lini sacri, anche oggi si presti la dovuta attenzione al rispetto, se non della totalità delle regole previste dalla tradizione, quantomeno della sacralità degli oggetti maneggiati, sia da parte di chi effettua il lavoro manuale, sia da parte dei sacerdoti che sono responsabili della loro supervisione e cura.


Note

  1. Oec. Conc. Vaticanum II, Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 10
  2. Emerito, uno dei martiri di Abitina.
  3. Principi e norme per l’uso del Messale romano, n. 289.
  4. Rituale romano, Benedizionale, 1289.

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