Quando oggigiorno si sente parlare di “visita pastorale” i sentimenti dei fedeli sono, molto spesso, variegati. Di solito, l’annuncio della visita da parte del vescovo diocesano è, in primo luogo, motivo di gioia, per la presenza nella comunità di un Successore degli Apostoli. Gli organi ufficiali della parrocchia, inoltre, hanno il dovere di prendere parte in veste ufficiale alle celebrazioni in programma. Vi sarà però anche chi avrà il compito di organizzare e rendere perfetta la visita e che quindi, probabilmente, più che godersi il momento sarà preso dai suoi impegni, così come vi saranno molti che mostreranno totale disinteresse.
Questa diversità di sentimenti è anche dovuta al modo in cui, ai nostri giorni, viene intesa la visita pastorale, ovvero un semplice momento di festa alla presenza del vescovo. Una simile immagine è certamente andata imponendosi dopo gli anni del Vaticano II e, ai giorni nostri, è più forte che mai, probabilmente anche a motivo delle personalità alquanto singolari e, talvolta, discutibili che caratterizzano una discreta parte del collegio episcopale. Il vescovo viene semplicemente visto come “un buffo personaggio, con un buffo cappello, con un buffo bastone” che, molto spesso, si diverte a fare battute e cose simili. Non proprio l’immagine del pastore che ci aspetteremmo, anche se, del resto, questi luoghi comuni sono accentuati dalla scarsa frequenza con cui una diocesi può sentire la presenza del proprio vescovo. Infatti, è quasi sarcastico notare come negli anni della “Chiesa della misericordia”, dei pastori con la “puzza delle pecore” abbondino in modo esponenziale le figure dei vicari episcopali, siano essi delegati a porzioni di territorio o a campi delle attività pastorali. Vuoi per una ragione, vuoi per un’altra, il risultato è sempre il medesimo: per qualsiasi questione ci si deve rivolgere al vicario responsabile, il vescovo diventa una figura quasi superata, da rispolverare giusto quando è necessario per opportunità fotografiche.
Chi avrebbe mai detto, invece, che nell’arcigna Chiesa post tridentina, i vescovi fossero figure ben più presenti di oggi. Sì, perché dopo la nota decadenza dei secoli precedenti, il Concilio di Trento aveva veramente riportato autorevolezza e prestigio ai pastori diocesani. Sempre il Concilio di Trento aveva disposto per i vescovi il compito della visita pastorale alle parrocchie della Diocesi, con quasi un’anticipazione di 500 anni rispetto alla “puzza delle pecore”.
Se è quindi priva di fondamento la vulgata secondo la quale prima del Vaticano II i vescovi erano chiusi nei loro episcopi, è invece vero che in buona parte si è perso il fine che era proprio della visita pastorale. A tal proposito, il Concilio di Trento afferma che: «I patriarchi, i primati, i metropoliti e i vescovi non manchino di visitare personalmente la propria diocesi; […]. Se ogni anno non potessero visitarla completamente per la sua estensione, ne visitino almeno la maggior parte, in modo tale, però, che nel giro di due anni, o personalmente o per mezzo dei loro visitatori, terminino di visitarla». E, a proposito delle finalità, si espone quanto segue: «Scopo principale di tutte queste visite sia quello di portare la sana e retta dottrina, dopo aver fugato le eresie; di custodire i buoni costumi e correggere quelli corrotti; di entusiasmare il popolo, con esortazioni e ammonizioni, per la religione, la pace, la rettitudine; e di stabilire tutte quelle altre cose che, secondo il luogo, il tempo, l’occasione, e la prudenza dei visitatori, possono portare un frutto ai fedeli»1. Pertanto, si deduce come la visita pastorale doveva avere anche un ruolo di correzione rispetto a eventuali errori o, più semplicemente, noncuranze.
Ma, all’atto pratico, come avveniva questa visita? Inutile dire che i luoghi destinatari della presenza del vescovo erano quelli di culto. Ovviamente doveva essere visitata la chiesa parrocchiale (che nelle comunità più ampie poteva essere anche collegiata) e poi si terminava il giro delle altre chiese o cappelle o oratori. Le modalità di ricevimento del vescovo erano ben illustrate nel Ceremoniale Episcoporum.
Grande attenzione era riservata all’arredamento della chiesa, il quale doveva rispondere a norme molto dettagliate ma che lasciavano un minimo di tolleranza a seconda dell’importanza del luogo (cattedrale, collegiata, parrocchiale, eccetera). Elemento importante da predisporre era la sede del vescovo. A differenza di quanto avviene oggi durante le visite pastorali, nelle quali è raccomandata la concelebrazione con il parroco e il clero locale, in passato non veniva necessariamente celebrata la Messa pontificale, forse a motivo della difficoltà dell’organizzazione. In tal caso, ad esempio, si sarebbe dovuto predisporre il trono pontificale, da ornare riccamente coi colori del giorno liturgico e, possibilmente, con lo stemma episcopale sulla sommità. In assenza della Messa, o anche in caso di sua celebrazione nelle chiese più piccole, il vescovo sedeva invece sul faldistorio, un seggio liturgico ornato coi colori del giorno privo di schienale e ancora oggi utilizzato nelle diocesi più organizzate.
Oltre alla sede, andava predisposto un inginocchiatoio di fronte all’altare del Santissimo Sacramento e un altro di fronte all’altar maggiore, qualora le due cose non coincidessero. Anche l’ornamento dell’inginocchiatoio poteva variare, verde o violaceo per i vescovi, rosso o violaceo per i cardinali, a seconda del tempo. Qualora si fosse celebrata Messa, infine, sull’altare si sarebbe dovuta aggiungere la settima candela, propria dei pontificali.
All’arrivo in parrocchia, il vescovo doveva essere ricevuto dall’ecclesiastico di grado più alto, tendenzialmente il parroco. Laddove possibile, l’ingresso in chiesa sarebbe stato preceduto da una processione in cui il vescovo, indossata la cappa magna, avrebbe attraversato un breve tratto di strada coperto dal baldacchino. Negli altri casi, invece, ci si sarebbe limitati direttamente all’ingresso in chiesa con abito corale e mozzetta.
L’ecclesiastico più degno, a questo punto, vestito in piviale o in cotta e stola a seconda delle circostanze, porge al presule il crocifisso da baciare e, successivamente, presenta l’acqua benedetta affinché possa aspergere prima se stesso e poi il popolo. Nel Cerimoniale pre-riforma era anche uso incensare il vescovo. Oggi questa consuetudine non è più applicata, fatta eccezione per il rito ambrosiano che l’ha conservata.
Terminata l’accoglienza, la processione avanzava lungo la navata e, durante il canto di determinate antifone, il vescovo passava benedicendo i fedeli. Si invocava poi lo Spirito Santo col Veni, Creator e, infine, si faceva la memoria del patrono. A questo punto iniziava, se doveva essere celebrata, la Messa pontificale. Il vescovo assumeva i paramenti direttamente al trono. In assenza della celebrazione, invece, rimaneva in abito corale e, dalla sua sede, esortava i presenti con un discorso che esponesse le ragioni della visita.
L’attività successiva era la visita al cimitero. Il vescovo assumeva i paramenti neri, recitava l’assoluzione per i defunti e si recava processionalmente al camposanto dove aspergeva le sepolture. In seguito tornava in chiesa e, assunti i paramenti bianchi, dopo la visita al SS.mo, iniziava una vera e propria ispezione degli ambienti e degli oggetti sacri. Si procedeva partendo dal tabernacolo e dai vasi sacri, si passava quindi agli altari, alle reliquie fino al fonte battesimale ed ai confessionali per terminare con l’esame della sagrestia e dei paramenti in essa custoditi. A questo proposito, sono memorabili le ammonizioni di San Carlo che, durante le visite alle parrocchie dell’Arcidiocesi ambrosiana, sovente aveva da obiettare sul materiale o sul decoro con cui venivano composti i tabernacoli.
Per ultima, veniva amministrata la Cresima che, nella forma straordinaria, al pari degli altri Sacramenti, era celebrata al di fuori della Messa. Anche oggi è suggerita la celebrazione delle Cresime durante le visite pastorali ma, in molti casi, si preferisce non sovrapporre gli eventi, considerando ormai l’elevato numero di sacerdoti ai quali viene concessa, anche stabilmente, la facoltà di amministrare la Cresima. Non così in passato, quando era strettamente dovere del vescovo cresimare i fedeli della propria diocesi, eventualmente anche ricorrendo a celebrazioni con la presenza di molti cresimandi.
La visita pastorale “ufficiale” poteva così dirsi conclusa, anche se, ovviamente, rimaneva la possibilità per il vescovo di visitare architetture o luoghi degni di particolare importanza, eventualmente impartendo una benedizione. Altra attività propria della figura del vescovo era la benedizione delle campane, quando essa si fosse resa necessaria. Delle attività svolte durante la visita e delle eventuali azioni intraprese si doveva prendere nota ufficiale. Ai nostri giorni, ad esempio, i prelati devono consegnare tale materiale alla Santa Sede in occasione delle visite ad limina.
Siamo ben consapevoli che oggi molti aspetti illustrati in questo articolo non sono più presi in considerazione durante le visite pastorali o che le visite stesse sono sovente compiute da vicari e delegati, tuttavia avere chiara la consapevolezza di quello che era il rituale proprio di queste occasioni è motivo non solo di interesse, ma anche di riflessione riguardo al vero significato che la visita del proprio pastore dovrebbe veicolare.
Note
- Concilio di Trento, sessione XXIV, capitolo 3