La morte di un Pontefice è sempre un evento epocale nella vita della Chiesa. Che piaccia o meno, che abbia edificato o scandalizzato, che sia stato benedizione o prova, un Papa è sempre il successore di Pietro. E davanti alla morte di un uomo che ha portato sulle spalle il peso tremendo del munus petrino, il silenzio, la preghiera e la dignità devono prevalere sul giudizio, sul rancore e sulla reazione mondana.
Non possiamo nasconderlo: il pontificato di Papa Francesco ha profondamente diviso, ha suscitato interrogativi, ha talvolta scosso le fondamenta stesse della percezione del Papato, specialmente tra coloro che si sentono figli fedeli della Tradizione. Ci sono state parole ambigue, gesti discutibili, aperture pericolose, e non pochi teologi hanno parlato apertamente di affermazioni prossime all’eresia, o addirittura eretiche in sé. Ma tutto questo – reale o percepito che sia – oggi non può essere il centro della nostra attenzione.
Oggi, un uomo è morto. Un’anima si è presentata al cospetto di Dio. E quell’uomo, che oggi ha lasciato questa terra, è il Vescovo di Roma, il Romano Pontefice, il Successore di Pietro. Chi disprezza questo, chi gode della sua morte, chi lo deride oggi, tradisce non solo la carità cristiana, ma anche l’ecclesiologia più profonda. Perché è vero che il Papa può sbagliare come uomo – e anche come Papa, quando non parla ex cathedra – ma è altrettanto vero che, finché siede sulla Cattedra, è segno visibile dell’unità della Chiesa, è il Vicario di Cristo sulla terra.
Esultare per la morte di un Papa è gesto grave, e profondamente scandaloso. Anche se si crede – con motivazioni fondate o meno – che il suo governo sia stato dannoso o fuorviante, la morte non è mai una liberazione politica. Il respiro della Chiesa è ben più ampio di quello degli schieramenti. Siamo chiamati a giudicare secondo lo Spirito, non secondo la carne. Non siamo davanti alla morte di un avversario, ma di un padre – ferito, imperfetto, forse anche cieco – ma pur sempre padre.
La Tradizione che tanto amiamo non ci insegna a giudicare i morti, ma a pregare per loro. Non ci insegna a cercare vendette celesti, ma a raccomandare le anime al Signore. È questa la vera postura del cattolico: inginocchiarsi, e dire Requiem aeternam dona ei, Domine. Questo è il linguaggio di chi crede che il cielo sia reale, che l’inferno sia possibile, che il giudizio sia temibile, e che la misericordia di Dio sia più grande di ogni nostra misura.
Chi oggi sminuisce la morte di un Papa o la tratta con leggerezza, contribuisce – magari inconsapevolmente – alla desacralizzazione stessa della figura petrina. E se disprezziamo oggi il Pontefice defunto, saremo pronti domani a fare lo stesso con il prossimo. Così la Chiesa si sgretola. Così si passa dal sano discernimento alla logica del mondo, che divide, etichetta e distrugge.
Riconoscere la dignità dell’ufficio petrino non significa approvare ogni atto di chi lo ha ricoperto. Significa però accettare che, anche in tempi bui, Dio non abbandona la Sua Chiesa. Significa credere che il Papato resta una realtà autentica, anche quando sembra travolto dalla confusione. E significa anche sapere che il tempo del giudizio spetta a Dio, non a noi.
Papa Francesco ha terminato il suo pellegrinaggio terreno. Ora si trova dinanzi al Giudice supremo, come ogni uomo. La sua morte è un’occasione per riflettere sul mistero del Papato, sulla precarietà della vita, sulla serietà dell’eternità. È un’occasione per pregare, per chiedere perdono, per sperare.
Chi ama veramente la Chiesa, oggi tace, si inginocchia e prega. Chi ha sofferto sotto questo pontificato, oggi offre quella sofferenza in riparazione. Chi ha dubitato, oggi chiede luce. Ma nessuno, oggi, ha il diritto di esultare.
“Non toccate i miei consacrati”, dice il Signore (Sal 105,15). E noi, figli della Chiesa, dobbiamo ricordarlo anche – e soprattutto – quando ci costa.
Alex Vescino
Direttore