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Leggende conciliari sulla Liturgia

Il Concilio Vaticano II è unanimemente considerato all'origine di molti cambiamenti nella Chiesa e nella sua liturgia. Ma è veramente così, oppure alcune vulgate non sono altro che "leggende conciliari"?

Settimana scorsa, segnatamente l’11 ottobre, in corrispondenza della memoria liturgica di San Giovanni XXIII, è stato celebrato, in Vaticano e non solo, il 60° anniversario dell’apertura dei lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II.

A sessant’anni di distanza sono ancora molteplici, all’interno del mondo cattolico, i dibattiti sul giudizio da attribuire al Concilio. Infatti, per quanto ormai agli occhi del mondo la Chiesa abbia assunto un’immagine decisamente differente rispetto a quella dei tempi di Pio XII, sempre più fedeli provano una certa “attrazione” verso quelli che erano gli usi liturgici e, in alcuni casi, anche le impostazioni teologiche preconciliari. Anche i vertici della gerarchia ecclesiastica sembrano essersi accorti di queste fibrillazioni, al punto che lo stesso Papa Francesco appare impegnato personalmente in uno scontro con il mondo tradizionalista, battaglia di cui il Motu Proprio Traditionis Custodes appare l’arma più pesante.

Da parte nostra, non vogliamo esporci in questo articolo con critiche o pensieri legati a tale disputa. Piuttosto, intendiamo far chiarezza su alcune leggende conciliari ampiamente diffuse sia tra i sostenitori che tra i detrattori del Concilio e che, talvolta, degenerano in apparenti giustificazioni per le tesi dell’una o dell’altra parte.

Per esempio, è comune e consolidata la credenza che il Novus Ordo Missae, detto alternativamente la Messa di San Paolo VI (in opposizione alla Messa tridentina, detta di San Pio V) sia frutto diretto dei lavori conciliari. In realtà, la Costituzione Apostolica Missale Romanum con la quale venne introdotto il nuovo testo del Messale reca la data del 3 aprile 1969. D’accordo, dirà il lettore, ma i lavori furono eseguiti durante il Concilio. Anche questa affermazione non è esatta, difatti il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia venne istituito verso la fine del 1963 e rimase in funzione fino al 1970, decisamente dopo la chiusura dei lavori del Vaticano II. È bene ricordare quindi non solo che la produzione dei testi non venne affidata all’assemblea composta da tutti i Padri Conciliari, ma che da questi non fu nemmeno approvata, laddove la redazione fu invece affidata al già citato Consilium (il cui segretario era l’arcinoto mons. Annibale Bugnini) e successivamente approvata dal Santo Padre.

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Deve essere inoltre evidenziato, per amor della verità storica, che il desiderio di riformare la liturgia risale a periodi anteriori al Concilio. In realtà, fu proprio San Pio X, il campione della lotta contro il modernismo, ad intervenire in modo significativo su alcune precedenze del calendario oltre che a riorganizzare il Breviario. Inoltre, non possiamo non ravvisare anche nelle azioni e nei discorsi di Papa Pio XII una personale convinzione sulla necessità di una riforma della liturgia, ufficializzata poi con la pubblicazione dell’Enciclica Mediator Dei, in cui il pontefice definisce «encomiabile ed utile gara» gli studi e approfondimenti in materia liturgica, pur mettendo in guardia da quanti «sono troppo avidi di novità». Come è noto, poi, il deteriorante stato di salute negli anni post-bellici di Papa Pacelli fu un impedimento al raggiungimento di più alti obiettivi, ed è quindi inutile dibattere su quale sarebbe oggi la forma della S. Messa se fosse stato lui a condurre quelle quasi obbligate riforme le quali, oggettivamente, venivano richieste perfino da molti sacerdoti. Potremmo tuttavia sospettare, e anche a ragione, che probabilmente non avrebbero avuto una forma così differente dalla Messa di oggi se a condurle fosse stato sempre mons. Bugnini, il quale aveva potuto già dimostrare quali fossero le sue preferenze liturgiche con la riforma della Settimana Santa entrata in vigore nel 1955. Non a caso anche dopo il Concilio, per quanto concerne le peculiari liturgie della settimana più importante dell’anno, ci si limitò, in buona parte e con i dovuti adattamenti, a una traduzione dei riti riformati, in quanto essenzialmente in linea con il nuovo Messale.

Per assurdo, chi forse era più contrario a una riforma liturgica troppo spinta fu proprio Papa Roncalli il quale, come è noto, era un convinto sostenitore della necessità di mantenere la lingua latina nella liturgia. Il santo pontefice, proprio a questo proposito, lasciò in eredità la Costituzione Apostolica Veterum Sapientia la quale, a detta del cardinal Martini, costituiva agli occhi di Giovanni XXIII un’architrave del proprio pontificato, per quanto poi la storia le abbia tristemente ed ingiustamente riservato un diverso destino. Del resto, l’ultimo Messale tridentino, formalmente l’unico cui poter attingere per le celebrazioni in quella che, fino allo scorso anno, era la forma straordinaria del Rito Romano, è proprio il Messale del 1962 edito da Papa Roncalli. La volontà di pubblicare una nuova edizione del Messale non può che significare una certa contrarietà del papa verso riforme liturgiche che puntassero a stravolgere totalmente la struttura che per secoli era sempre rimasta alla base della S. Messa.

Per orientare ora i fari in modo più specifico sul Concilio, prendiamo in considerazione la Costituzione che il medesimo pubblicò riguardo la Sacra Liturgia, ovvero la Sacrosanctum Concilium. Questo testo ha avuto e continuerà ad avere il pregio di averci regalato quell’espressione non solo bella ma anche significativa di liturgia vissuta come «culmen et fons». Inoltre, talvolta scordiamo anche il merito di aver dedicato una sezione all’importanza dell’educazione liturgica verso sacerdoti e fedeli, passaggio fondamentale anche per quanti si accostano al rito nella forma antica. 

Ovviamente, si tratta di un documento con uno scopo riformatore, su questo non vi è dubbio alcuno. Tuttavia, l’immagine dominante nello scenario collettivo è assai differente rispetto alla realtà. Ad esempio, cosa affermerà mai questo famigerato testo sulla questione linguistica? «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti». Decisamente il contrario di quanto è oggi prassi comune. «Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi». Verrebbe da chiedersi se quanti domandano, in maniera ossessiva ed ideologica, la totale applicazione del Concilio siano altresì disposti ad impegnarsi per garantire l’osservanza di questi scomodi paragrafi.

Ai nostri giorni, in cui tutti siamo stati testimoni di una pandemia, merita discussione anche un argomento che è tornato, proprio a causa del Covid, al centro del dibattito: la Comunione sulla mano. «Deriva dal Concilio», dicono. Peccato però che non vi fosse un solo accenno, né in Sacrosanctum Concilium, né nel Messale riformato, ad un cambio di regole per la distribuzione della Comunione. Ma allora chi l’ha consentita? L’Istruzione Memoriale Domini del 1969, nella quale, a seguito di molti abusi segnalati, veniva concessa la possibilità alle Conferenze Episcopali di autorizzare con indulto la modalità di distribuzione sulla mano, pur ribadendo però che dovesse rimanere un’eccezione. Come poi sia invece diventata la regola è tutt’altra faccenda, ma non certo imputabile al Concilio. Analogo discorso può essere fatto sull’orientamento del celebrante versus populum, non prescritto da nessuna norma ma affermatosi a seguito della decisione di staccare gli altari dalla parete.

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Merita una doverosa menzione anche la sezione dedicata alla musica sacra. Purtroppo oggi la decadenza musicale è un’altra piaga dilagante in alcune celebrazioni, nelle quali si preferiscono canti estranei alla tradizione per non dire totalmente pagani. E cosa afferma il Concilio in tal senso? «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale». Anche in questo caso, si osserva con una certa amarezza il “doppiopesismo” dei paladini del Concilio.

Tutte le considerazioni fin qui esposte trattano tematiche liturgiche, tuttavia potremmo facilmente allargare questo discorso a molti altri ambiti. Certamente, nessuno intende negare la portata rivoluzionaria del Vaticano II, quasi come tutte le riforme dai controversi risultati siano completamente slegate dallo stesso. Non vogliamo e non possiamo, però, abbassare la guardia sugli errori prodotti da quella convinzione «che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente “altra”» come denunciato da Papa Benedetto XVI. E’ auspicabile quindi, in quest’anniversario, impegnarsi per fare chiarezza su leggende e miti conciliari come quelli esposti in quest’articolo i quali, consolidandosi nel tempo, riescono sempre più ad accreditarsi come verità assolute.


Note:

  1. Conc. Ecum. Vaticano II, Cost. Ap. Sacrosanctum Concilium, cap. I, art. 36
  2. Idem, cap. II, art. 54
  3. Idem, cap. V, art. 116

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