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L’importanza di una buona confessione

Obbligo o verità per noi stessi?

Nel leggere la traccia fornitami per redigere questo scritto che vede come tema di fondo la confessione e la sua importanza, mi è subito venuta alla mente una scena della saga di Peppone e Don Camillo. Il Sindaco di Brescello,noto per la sua fede nell’ideale comunista, a un certo punto sente il bisogno di presentarsi in chiesa dal signor curato per poter essere confessato. Certo Peppone aveva un bel macigno da confessare, oltre ai notevoli arretrati, visto che il mese prima di nascosto aveva aggredito il povero don Camillo a suon di bastonate. Ma ciò che più colpisce sono le parole con cui presenta la sua richiesta affermando che non è il sindaco a chiederla ma il cristiano. 

Ma come? Uno sfegatato sostenitore della rivoluzione proletaria, fervido oppositore della gerarchia ecclesiastica chiede la confessione in quanto cristiano?

In fondo Peppone, seppur fedele compagno di partito e di lotta, è innanzitutto un uomo. E in quanto tale ha ricevuto un’educazione in casa, che prescinde dal catechismo della Chiesa Cattolica, dai moniti che il parroco di paese dava ogni domenica dal pulpito ai suoi fedeli e da qualsivoglia corrente politica. A ben pensarci la pratica della confessione è un valore che ci viene trasmesso da ben prima di frequentare le sale parrocchiali. A quale bambino tra i primi insegnamenti che riceve nella sua fase evolutiva, dopo il saper chiamare le persone con il proprio nome o attributo, il saper dire grazie, non vi èquello di riconoscere l’errore e saper chiedere scusa? Ovviamente si tratta di una dote caratteriale e di un valore personale che evolve assieme al progredire della crescita umana di una persona. O quanto meno cosi dovrebbe essere.

Constatiamo sempre più come l’uomo di oggi porti dentro,ancor prima di una crisi di fede religiosa, una frattura ancora più profonda quanto nascosta agli occhi dei più: una crisi della coscienza. Se, fermando le persone per strada in una grande città, dovessimo chiedergli se percepiscono di vivere una crisi di fede non avrebbero alcun dubbio nel risponderti di no, perché per loro non ha senso vivere una dimensione di fede associata a un’entità divina (sull’oroscopo invece non ci sarebbero problemi). Ma se alle stesse venisse rivolta la domanda se percepiscono di avere una crisi della coscienza, molti rimarrebbero ammutoliti, altri perplessi, altri, oso affermare, ti chiederebbero cosa si intende dire con l’espressione coscienza. 

Se noi stessi non abbiamo un rapporto di conoscenza, di confidenza, di fiducia con la nostra voce interiore, riflettente la nostra anima e ciò che noi siamo e viviamo, come possiamo chiedere a noi stessi e agli altri di affidare questo importantissimo esercizio interiore nelle mani di Santa Madre Chiesa?

Di certo, sotto sotto, quasi tutti ci autoconvinceremmo con il monito del «eh ma non mi conviene»: vuoi per l’imbarazzo, vuoi per l’orgoglio, vuoi perché intanto abbiamo talmente imparato a relativizzare che intanto va tutto bene. Al massimo chiariamo noi da soli con il Padre eterno. Certo, a sbrigarsela parlandosi da soli ovvio che tutto si risolve; e guarda caso anche con metodi veloci ed efficienti. Di certo non con la lunga lista di preghiere commissionate da don Camillo al mal capitato Peppone. 

Ma proviamo dunque a chiederci e a riflettere su questo punto: se noi come persone fatichiamo a porci in sincerità innanzitutto con noi stessi nell’ambito della propria coscienza personale o di un dialogo aperto e sincero con un ministro della Chiesa, che tutto custodisce nel segreto, come facciamo a porci realmente in verità con tutte le persone che ci circondano, in particolare modo colui o colei con il quale scegliamo di condividere in modo eterno e fedele la nostra esistenza? Qui non si tratta di chiedere scusa per uno sbaglio o una birichinata; qui si tratta di assumere su di sé un atteggiamento. 

Io ogni giorno scelgo, ogni giorno rinnovo il mio sì, affinché io possa pormi in verità e sincerità con me stesso, con la comunità sociale, ecclesiale e infine umana che mi accoglie come suo membro e al cui interno io vivo e cammino. Si tratta di un esercizio continuo. Un allenamento da vivere in modo costante. Qui non si tratta di vedere i tempi in cui poter cogliere i frutti. L’aspetto sempre verde della pianta è il frutto stesso della pianta. L’esercizio costante, il plasmare la propria essenza interiore fanno sì che, anche negli inverni più rigidi della propria esistenza personale, ciascuno di noi possa continuare a garantire a nuove gemme di spuntare e di preservare la propria integrità. 

Come fedeli e testimoni costruttivi, impegnati nella edificazione del Regno di Dio, penso sia importantericordarci che la motivazione di una buona, e se possibile costante, confessione non è esauribile nell’affermare che essa è la cosa giusta da fare come un obbligo   nei confronti della Chiesa e della pratica di fede. Sono risposte che non sono sufficienti per la nostra formazione cristiana.

Il fulcro di tutto sta nel fatto che noi questa scelta la adempiamo per noi stessi, per la nostra integrità umana e per la nostra salvezza. Accostandoci al sacramento della confessione consegniamo a noi stessi un dono che ogni volta riscopriamo come se fosse la prima volta. Un dono che altrimenti rischia di rimanere come un bel soprammobile posto sul cassettone in camera, a cui l’unica attenzione che prestiamo è di concedergli una spolverata ogni tanto. Accostarsi al sacramento della confessione significa dar la possibilità alla paternità di Dio di emergere e trapelare proprio dalle nostre ferite, dai nostri sbagli o semplicemente dai nostri limiti. Un bravo confessore non ha bisogno di grandi discorsi e predicozzi. Prende i tuoi cocci, li dispone su un tavolo, e dopo aver rimosso i componenti che risultano come intrusi, crea una sorta di quadro vivente facendoti così apparire come la voce di Dio fosse già presente dentro di te, ma in maniera parecchio confusa; son bastati pochi colpi di pennellino e una volta rimossa la polvere, il disegno ti apparirà davanti. 

Il vivere una buona confessione ci evita inoltre un altro grosso rischio a cui noi cristiani rischiamo di essere esposti nella preghiera personale: l’auto-convincimento. A forza di parlare talmente tanto con Dio e con noi stessi rischiamo di perdere di oggettività e dunque porre nella bocca di Dio proprio ciò che desideriamo sentirci dire. Dobbiamo ricordarci che, a differenza di altri culti, la nostra fede per essere vissuta in modo autentico assieme al vissuto personale, ha bisogno della mediazione salvifica della Chiesa.

«Extra Ecclesiam nulla salus» affermava Cipriano.   

Signore, aiutaci a nutrire il desiderio di ascoltarti attraverso la tua Parola, di assaporarti nell’Eucarestia e di toccare con mano il tuo cuore nel dialogo con Teattraverso un ministro della tua Chiesa. Così sia.

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