Da sempre ho reputato il tema della morte come una realtà meritevole di un rigoroso (e mi permetto anche di specificare religioso) rispetto, a cui approcciarsi con una notevole dose di umanità, delicatezza e sensibilità. La definizione di morte infatti, dal mio personale punto di vista, non si esaurisce esclusivamente con l’interruzione dei processi biologici, chimici e psichici che compongono la natura umana; non dobbiamo neppure scordarci che vengono meno i ponti che alimentano la nostra dimensione umana e che permettono alla nostra esistenza di essere parte integrante di un complesso sistema di interconnessioni che costituiscono l’aspetto comunitario di cui facciamo parte. Accettiamo di provare a vivere dunque tale mistero sotto la prospettiva della fede.
Ma torniamo a noi. Non volendo puntare su un titolo ad effetto ma su qualche cosa di maggiormente delicato, ho scelto di partire da questa citazione della liturgia del Mercoledì della ceneri, espressa nel momento dell’imposizione delle stesse: «Memento, homo, qui pulivis es, et in pulverem reverteris», che tradotto equivale a «Ricordati, o uomo, che polvere sei, e polvere ritornerai». Non trovo miglior espressione liturgica che sappia rendere, in modo chiaro ed esplicito, tutta la complessità del percorso umano e biologico della nostra esistenza. Affascinante e non minaccioso questo monito: torneremo a essere cenere, che cadendo e sciogliendosi nella terra, alimenterà l’humus permettendo così a quel chicco di grano di morire e di portare molto frutto. Che meraviglia la saggezza degli antichi: hanno saputo trasformare e osservare, sotto la prospettiva cristologia ed escatologica, quel messaggio che la natura fin dalle origini della sua creazione portava implicita dentro di sé. Ma se consideriamo questa come la partenza della nostra riflessione, dovremmo considerare come meta l’essere in grado di rapportarci con essa come «Sora nostra morte corporale» nel modo in cui San Francesco amava definirla.
Facciamo un passo per volta. Proviamo a domandarci come mai, dunque, l’elemento della morte, nonostante sia parte del ciclo vitale della nostra esistenza, faccia cosi tanta paura, al punto che molti di noi ne provano una vera e propria repulsione; la morte è considerata un tabù, come se il non parlarne e pensarci mai possa illuderci di poterla allontanare e scacciare. Molti esperti ritengono che noi viviamo in una società che tende a dimenticare la morte, come se non dovesse mai arrivare, cercando appunto di liquidarla il più rapidamente possibile. Non abbiamo tempo per il lutto e per soffermarci su questo momento fondamentale di ogni esistenza. Istintivamente ci potrebbe venire da pensare che il motivo sia riconducibile alla mancanza di quei rapporti affettivi reciproci che viviamo nella nostra vita. Questo ci porterebbe a un senso di confusione permanente, se non addirittura di inutilità, come spesso provano le persone sottoposte a un distacco affettivo traumatico e in molti casi cruento. Se fosse però davvero questo il solo motivo a causare il disarmo e il disagio interiore saremmo maggiormente portati a curarci e a nutrirci di questi legami finchè ne avessimo la possibilità; invece ci riempiamo la vita di mille futilità, quasi fosse un’ossessione dover riuscire ad adempiere a tutte le cose che abbiamo da fare, che vorremmo fare e che secondo noi andrebbero fatte, vissute e provate prima di chiudere gli occhi. Un “tutto” che appare quasi un dogma o un imperativo da assolvere, ma che nessuno di noi sa ben definire di che cosa si tratta, e soprattutto chi ci abbia dato questo ordine e perché. Mi fanno sorridere quelle persone che mi dicono: «Ah, io prima di morire devo assolutamente provare a fare questo, visitare quel posto, a provare quella determinata emozione…». Sembra di dover svolgere le nostre attività secondo una lista predefinita di cose da fare che ci siamo prefissati e da spuntare ogni qualvolta abbiamo assolto un punto della lista. A queste persone chiederei: «E una volta provate, che te ne fai di tutte queste emozioni? Te le porti dietro? Non credo proprio.»
Forse questo senso di frustrazione davanti al vuoto che ci crea orrore, trova la sua causa nel percepirsi impotenti, incapaci di saper gestire il tutto, di poter organizzare e fissare ogni cosa secondo criteri logici e razionali per i quali ci sembra di poter anestetizzare questa paura interiore.
Tutto ciò non è da considerarsi malvagio ed elemento di peccato: non possiamo negare e annichilire la nostra dimensione e realtà umana. Possiamo, e siamo anche chiamati, a fare una scelta di fede. Non è nemmeno sufficiente dire a noi stessi, al nostro essere cristiani «Io credo!»; qui non si tratta di raccontarci una favoletta tanto per conciliare il sonno e calmare gli animi come si fa con i nostri bambini (o quanto meno si faceva). Si tratta di proseguire e di portare a compimento il nostro cammino di fede.
Credere nella Resurrezione dei morti e nella Vita Eterna non è ascoltare una favola di Epicuro che ci consegna una morale: significa accogliere dentro di noi il mistero più grande, più incomprensibile che la fede ci abbia dato in consegna. Il mistero della Resurrezione non lo si crede come concetto nozionistico; lo si accoglie e lo si vive dentro, alimentandolo giorno dopo giorno con la nostra preghiera.
Due sono allora i doni da richiedere: la Grazia e la Fiducia. La Grazia attraverso la quale, con la quale e nella quale noi possiamo accogliere e interiorizzare questo mistero e poterlo così contemplare agli occhi della fede. La fiducia invece per non essere indotti ad allontanarci da questo percorso di conoscenza e accoglienza verso quella che non è una mera interruzione biologica, bensì la porta di ingresso verso il Regno di Dio, vissuto nella sua pienezza.
Finché continueremo a figurarla come colei che sopraggiunge in modo furtivo, con tanto di falce, ovvio che continueremo a rinnegarla. Qui non si tratta di vedere la morte come qualcosa da desiderare per migliorare la nostra vita e adempiere al nostro cammino cristiano. Non siamo masochisti e certamente non siamo intenzionati a rinnegare il dono più prezioso che Dio ci ha fatto, ovvero la vita. Solo se riusciremo a guardare oltre a quest’ostacolo terreno, potremo riuscire a guardare ad essa come «Sora nostra morte corporale», poiché attraverso di lei giungiamo alla contemplazione di Dio.
Concludo proponendo una citazione tratta dal catechismo di San Pio X che ben sintetizza l’animo che dovrebbe condurre il nostro percorso terreno: «Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra in Paradiso». [1]
Teniamo ben a mente queste parole. A volte basta così poco per costruire e far progredire la nostra esistenza cristiana dentro le fatiche e i contrasti di ogni giorno. Signore, noi crediamo che Tu sei presente anche in quel frangente che ai nostri deboli occhi umani appare come il buio assoluto. Con la morte la nostra vita non è perduta ma trasformata! E anche se il nostro corpo giace dentro una cassa di legno o in un mausoleo di marmo, l’anima pulsa tra le braccia di Dio e attraverso l’amore e la fede dei nostri cari, assieme all’intercessione di Dio Padre, il nostro legame ontologico con il mondo terreno e il Creato permane, perché anche questa è Resurrezione! Perché il Regno di Dio è già qui, è già ora, è qui e adesso.
San Francesco, sostienici nel nostro cammino verso la Gloria di Dio.
- Catechismo della dottrina cristiana, Prime nozioni della fede cristiana, punto 13.