di Venanzio Fortunato
È apparso sul quotidiano “Corriere della Sera” uno strano articolo (strano ben s’intenda per le posizioni che la testata giornalistica intende prendere) in cui un frate domenicano, tale Alberto Fabio Ambrosio, invita i suoi confratelli ad «indossare abiti belli».
Non vorrei troppo dilungarmi sul fatto squallido di concedere un’intervista del genere, fatto assai riprovevole anche nei confronti dei suoi legittimi superiori, ma vorrei affidarmi piuttosto a ciò che Sant’Agostino dicevano sull’abito canonico.
Il Vescovo d’Ippona, infatti, diceva: «il vostro abito non sia appariscente e non cercate di piacere per le vesti ma per il contegno».
«L’abito non fa il monaco» recita un noto detto, usato e strausato per lavarsi la coscienza dinanzi a mode ignobili e disdicevoli nei confronti dell’abito ecclesiastico. In questo caso però è il monaco stesso che non vuole sentir parlare di abito. I latini intendevano con habitus – da cui deriva la parola abito – un’abitudine, una norma di comportamento, una disposizione. Quindi non è vero che «saio o doppiopetto, sinceramente, non vedo la differenza», anzi! Se viene a mancare un certo “legame” con il proprio ordine, un legame esterno certo, ma pur sempre eloquente, potrebbe benissimo venire a mancare un legame anche con i principi del proprio stato di vita.
Lungi dal voler fare il quarto grado sulle intenzioni del reverendo padre Ambrosio, vorrei però far riflettere sulla connessione che c’è tra vocazione, appartenenza al proprio ordine e, di conseguenza, al proprio abito. L’apostolo Paolo ricorda ai cristiani di Efeso[1] di «spogliarvi del vecchio uomo che si corrompe seguendo le passioni ingannatrici; a essere invece rinnovati nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità». E che cos’è quell’uomo vecchio, se non il proprio ed ingombrante “io”? Penso a qualsiasi giovane che può leggere la presente intervista e che magari ha in cuor suo un’intuizione vocazionale. Cosa potrebbe pensare? «Beh, guarda, posso continuare a fare quello che voglio, come voglio e come meglio mi pare anche dopo i voti solenni!». Che esempio si dà al Santo Popolo di Dio? Si fa presto a passare dal Massì, che vuoi che sia… alla vanità fine a sé stessa. La cosa che fa sorgere un sorriso è che magari non ci si meraviglia per questo tipo di “debolezze”, ma magari ci si straccia le vesti davanti a parati sontuosi e solenni, fiori sublimi e incensi pregiati! Perché all’uomo si deve dare il meglio, Dio può rimanere là dov’è!
Qoelet ci ricorda «Vanità delle vanità, tutto è vanità!»[2]. Bene. Ma se la vanità fa parte anche dell’uomo nuovo, che è per Dio, dove sta la novità di vita?