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Quando soffrire è amare

La sofferenza è propria di questo mondo. Si può soffrire fisicamente, spiritualmente, psichicamente. Ogni pena, potrebbe essere utilizzata da ciascuno per un fine ben preciso: la Salvezza delle anime. Per tutti i Santi, se si approfondisce la loro vita e le loro opere compiute in questo pellegrinaggio terreno, si possono constatare vissuti pieni e talvolta impregnati di sofferenza. Se ne farebbe un elenco interminabile a partire da Cristo, i primi Apostoli fino al novello Beato Carlo Acutis.

Noi stessi, anche se non prossimi alla santità per via delle tante àncore che, spesso e purtroppo, non ci consentono di prendere il largo verso il Redentore, viviamo o abbiamo vissuto momenti e situazioni che hanno causato in noi sofferenza. Ma cos’è, esattamente, la sofferenza?

Partendo da una spiegazione di tipo etimologico, si può affermare che il verbo “patire”, dal latino “patere”, sta ad intendere l’italiano “sopportare”, “permettere”, “essere aperto”. Ragion per cui è possibile trarre la conclusione logica secondo cui soffrire equivale a permettere che il male venga a contatto con il nostro essere, con la nostra persona affinchè sia da noi sopportato. Tutto sembra linguisticamente corretto, eccetto se si vuole osservare tale concetto da un altro punto di vista anzi, da due punti distinti ed univoci al medesimo tempo: dalla croce dalla quale pende il Cristo e dalla spada che ha trafitto, seppur spiritualmente e infliggendo pene diverse, la Madonna, secondo la profezia di Simeone (Lc 2, 34-35).

Come si osserva e si tocca con mano – se si legge la Sacra Scrittura e si partecipa al Sommo Sacrificio che è la Santa Messa con fede – tutto quanto Cristo Gesù ha patito, permettendolo liberamente, lo ha fatto per la salvezza delle nostre povere anime, per strapparci dal peccato. Infatti, il Calvario e la Passione seppur senza spargimento di sangue, si riattualizzano ogni giorno, ogni qualvolta il sacerdote stende le mani sull’altare. In senso prettamente cattolico, dunque nella verità, la sofferenza viene vista in senso escatologico-salvifico. San Giovanni Paolo II nella lettera apostolica “Salvifici Doloris” scrive: «Se il tema della sofferenza esige di essere affrontato in modo particolare nel contesto dell’Anno della Redenzione, ciò avviene prima di tutto perchè la redenzione si è compiuta mediante la croce di Cristo, ossia mediante la Sua sofferenza.»

La sofferenza, quando arriva, bisogna saperla sfruttare al meglio per la remissione dei peccati nostri e di quelli del mondo intero. E, se non arriva, è cosa buona attuare le parole che la Madonna ha rivelato ai pastorelli – Jacinta, Lucia e Francisco – durante le apparizioni a Fatima avvenute dal 13 maggio 1917 al 13 ottobre 1917, esortando, loro come noi oggi e in ogni tempo, a fare penitenza, ad infliggerci delle sofferenze, secondo le possibilità di ciascuno, per la conversione dei peccatori, in riparazione ai molti peccati di cui più nessuno chiede perdono a Dio. Il mondo vuole eliminare Dio tanto quanto la sofferenza. Ma non può esserci amore se non c’è dolore.

Un glorioso esempio da imitare per accettare e vivere le sofferenze e viverle per Cristo, ce lo dona san Policarpo, mentre stavano per arderlo vivo a causa di Gesù: «Egli dunque, con le mani dietro la schiena e legato, come un bell’ariete scelto da un gregge numeroso, quale vittima accetta a Dio preparata per il sacrificio, levando gli occhi al cielo disse: ‘Signore Dio onnipotente, Padre del tuo diletto e benedetto Figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto; Dio degli Angeli e delle Virtù, di ogni creatura e di tutta la stirpe dei giusti che vivono al tuo cospetto: io ti benedico perchè mi hai stimato degno in questo giorno e in quest’ora di partecipare, con tutti i martiri, al calice del tuo Cristo, per la risurrezione dell’anima e del corpo nella vita eterna, nell’incorruttibilità per mezzo dello Spirito Santo. Possa io oggi essere accolto […]quale sacrificio ricco e gradito, così come tu, Dio senza inganno e verace, lo hai preparato e me l’hai fatto vedere in anticipo e ora l’hai adempiuto. […]’».

Ecco, questo il sollecito di come accogliere la sofferenza. Non incolpando ed accusando Dio delle sventure che incontriamo sul nostro cammino, e che sono causa del nostro patire, ma benedicendoLo e supplicando la Sua Maestà Divina di accettare il nostro dolore, la nostra croce come sacrificio a Lui gradito per la salvezza di tante anime. Sia l’oggetto del dolore – il corpo, lo spirito, una situazione ecc. – l’altare su cui presentare ed offrire all’Altissimo quanto ha permesso ci avvenisse per ricavarne un bene molto più grande. Che sia per noi o per qualche altra anima.

Solo così, dunque, si può descrivere il vero significato della sofferenza nel cattolicesimo: offrire il patimento per la salvezza, senza alimentare l’ego e la volontà di ciascuno, donando tutto “in remissionem peccatorum”. Più sofferenze si portano in sacrificio su questa terra, tanto più corto sarà il Purgatorio per ciascuno.

Il cristiano è chiamato a partecipare alla croce di Cristo e ad agire come ci insegna l’apostolo Paolo: «Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo» (1Cor 4, 12), ed ancora: «Perciò sono lieto nelle sofferenze per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1, 24).

Solo soffrendo ed offrendo per amore di Gesù e Maria si è uniti dallo stesso amore con cui Cristo ci ha amati.

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