Prima di entrare nel tema ci tengo a sintetizzare alcuni aspetti “extra ecclesia” che possono aiutare. Oggigiorno, grazie alla tecnologia, molti lavori sono diventati meno faticosi, eseguiti in meno tempo e con meno persone coinvolte, insomma “in modo più pratico”. Tutto questo permette di avere più tempo libero da dedicare alla famiglia, amici, passioni, ecc. Ma è un vero bene “l’essere pratici?” Non stiamo perdendo qualcosa di importante? Non è forse meglio (il lavoro degli antichi che resta immutato nel tempo ne è una prova) dedicare più tempo al lavoro, con più amore e passione (magari ringraziando Dio con una preghiera, o fare meditazione) che schiacciare un “tasto” di un computer e perdersi nei divertimenti mondani (che affossano l’anima)?
La mia riflessione, dopo questa premessa generica si vuole focalizzare in modo particolare sulla “praticità del vestiario”. Ad esempio: oggigiorno per andare in montagna ci sono gli abiti da “trekking”, per giocare a calcio, per lavorare, in forza e a ragione di una maggior protezione e praticità. Questo è un bene (sul lavoro la sicurezza va’ al primo posto), ma in altri ambiti, col pretesto della praticità si comincia a vestirsi in modo particolare e si tagliano “parti inutili”, con il motto “sai, è più pratico/per fare prima”.
Una parentesi che apro e chiudo subito: ma a cosa serve risparmiare del tempo? Per pregare di più? Per opere di carità? O, molto più diffuso, per “avere spazi propri da occupare”?
La mia riflessione è partita dall’uso per i chierici della veste talare. Non voglio soffermarmi sull’importanza e la simbologia di questo abito, argomenti su cui persone più esperte di me hanno parlato e scritto. Ma voglio osservare che se l’abito proprio del chierico è “l’abito nero, con il collo romano” e a discrezione del chierico, “la tonaca” (norme dato della CEI), perché non viene applicata questa norma?
Penso che se si appartiene a un ordine, chierici, religiosi/e sia bene indossare l’abito proprio, come testimonianza agli altri e a se stessi, come esempio di mortificazione, e così via. Forse sono troppo rigorista, lo ammetto ma vedo che si è creato un circolo vizioso: all’ordinazione diaconale, così come a quella presbiterale, si ci mette la veste, poi, ai primi caldi o per “fare dei lavori” (quali? Curare l’orto?) o per “essere più libero nei movimenti” ci si mette il clergyman (camicia nera, colletto romano, pantaloni e scarpe nere), in forza della maggior “praticità”. Poi, visto che in estate fa caldo, il nero è pesante e allora si passa ai clergy di vari colori (alcuni permessi, altri meno) e, ultimo passo a vestirsi come le altre persone a seconda della stagione. Tutto in forza della praticità (ripeto: per fare lavori pesanti? Scalare l’Everest?).
Io comprendo che il caldo sia un elemento “fastidioso”, e che, in riferimento alla veste, sia “pesante” da portare (oltre a quelle diocesi in cui i preti in veste sono visti come tradizionalisti, ormai “desueti”, ecc. e quindi dismettono l’abito “per il quieto vivere”), ma:
- sono il segno di appartenenza a uno stato di vita particolare in cui si è morti al mondo (colore nero) per poter portare agli altri Cristo e non se stessi;
- una testimonianza per se stessi e gli altri, oggi più che mai necessaria in questo mondo sempre più ateo o, peggio, religiosamente indifferente ma che ha ancora in sé quei germi di religiosità che hanno bisogno di essere rinvigoriti anche da segni esterni che richiamano lo sguardo al Cielo;
- un’uniformità: un abito uguale per tutti come segno di unità nella dottrina, pastorale, ecc.
Comprendo anche che si può portare la veste più preziosa ed avere una vita moralmente dubbia (“l’abito non fa il monaco”), ma penso che se si educassero i seminaristi/novizi a quanto riportato sopra, si “userebbe” l’abito proprio nel senso giusto, conformando la propria vita a Cristo e portandolo agli altri con le parole, gesti, silenzi e anche, si, con l’abito. A questo punto il caldo e il freddo andrebbero in secondo piano comprendendo il servizio che si fa alle anime dei fedeli.
Affidiamoci all’esempio del Beato Rolando Rivi che donò la sua vita a Cristo prima entrando in seminario e poi con la corona del martirio proprio per non essersi tolto l’abito quando i partigiani, finita la guerra, imperversavano nei villaggi per “le vendette personali” e lui amava ripetere che la veste è uno dei segni che “appartengo a Gesù”. Beato Rolando Rivi, intercedi per noi!