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Sfida sulla comunione in mano

La comunione in mano resta uno dei punti più controversi. Ma è possibile che non sia lecito farsi delle domande? Noi ci abbiamo provato.

«Non pensare, lascia stare, ti fa male»: così cantava Loredana Bertè nella canzone Senza pensieri di Fabio Rovazzi. L’ambientazione del video (che consiglio di guardare) è quella di una società futuristica e orwelliana, dove si convincono i cittadini a non utilizzare la propria intelligenza ma a svagarsi con altre futili occupazioni. Ebbene, mi pare che queste parole possano essere applicate anche alla Chiesa, su una questione in particolare: la comunione in mano.

Ebbene sì, è l’ennesima volta che il sottoscritto ne parla, ma stavolta vorrei farlo ponendo delle domande. Immaginiamo di presentarci con la stessa grinta di Alessandro Orsini (non è qui il caso di entrare nel merito delle sue posizioni, si tratta di un semplice esempio nell’uso della retorica) con i suoi «io pretendo che il governo Draghi spieghi…».

  1. La comunione sulla mano venne introdotta in Italia nel 1989 su richiesta della Conferenza Episcopale Italiana. Bene (cioè male), mi sapete indicare per quale motivo? Su richiesta di chi? Al fine di ottenere quale scopo? Pretendo delle risposte.
  2. La comunione sulla mano viene presentata come l’unica soluzione possibile in tempi di pandemia: potete spiegarmi sulla base di cosa? Avete studi scientifici su larga scala dalla vostra parte? Perché non è stato considerato nessun metodo per riceverla in bocca comunque? Pretendo delle risposte.
  3. Perché a nessuno è venuto in mente di suscitare un dibattito sul tema? Oggi sembra che la Chiesa debba discutere di qualunque cosa col laicato, ma nessun sacerdote, nessun vescovo organizza dibattiti sul tema; perché? Pretendo delle risposte.
Sfida sulla comunione in mano

A queste domande pretendo che si dia una risposta. Infatti, nella liturgia ogni cosa è sensata, ha una sua logica, anche se non immediatamente evidente e chiara. Pertanto, ogni modifica, ogni adattamento, va adeguatamente motivato e, soprattutto, introdotto solo se apporta un beneficio. Ebbene, io (ma è sicuramente un mio limite da fondamentalista talebano) non trovo nessun bene in questa pratica. Siccome però, evidentemente, i nostri pastori lo trovano chiedo di poter sfidare uno di loro (o uno degli insigni docenti di liturgia pagati a peso d’oro in taluni istituti) in un dibattito. Però, attenzione, a regole ben precise: non accetto risposte del tipo «Sì, ma non è questo l’importante» o «È una sterile discussione che divide i fratelli» accompagnata da una faccina sorridente tipica della comunicazione boomer; esigo risposte puntuali, precise, inattaccabili e ben argomentate. Sono disposte a ripetere ad nauseam le domande fino a che non venga fornita una risposta.

Del resto – sia mai che non accada! – se qualche squinternato come il sottoscritto dovesse presentare ricorso contro questa pratica cosa accadrebbe? Io non lo so, ma lancio la domanda: cari fan della comunione in mano accettate la sfida o vi sottraete? Chi sa di aver ragione e ha agito in modo retto non teme di esporsi: chi si ritrae dal confronto ha sempre qualcosa da nascondere.

Davvero, io sottoscritto, caposervizio della sezione liturgica di Ecclesia Dei, mi offro per questa sfida. Io ci sono, non ho paura; e voi?

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