«L’abito non fa il monaco». Questo celebre detto è ormai sempre più comune, soprattutto in ambienti anticattolici, per screditare e gettare ombre sulla moralità e sui comportamenti del clero. Per quanto si possa ammettere che, in alcuni casi, il suo uso sia purtroppo giustificabile, il significato di base che esso sottende non è però condivisibile. Se da un lato, infatti, è pur vero che non è sufficiente un abito quale garanzia della moralità e della purezza di una persona, è altrettanto vero tuttavia che il particolare status di cui godono i membri del clero cattolico derivante dal sacramento dell’Ordine necessita di un segno di distinzione che sia anche esternamente visibile e che consenta ai fedeli di riconoscere agilmente la figura cui rivolgersi per la cura della propria anima.
In questo articolo, in particolare, ci vogliamo soffermare sull’abito proprio del clero secolare, ovvero l’abito talare. Purtroppo i sacerdoti che ancora oggi optano per indossare la talare sono in numero sempre inferiore ma, per quanto possa essere in parte comprensibile un ridimensionamento del suo impiego nella vita quotidiana, non mancano i preti che di questo abito non vogliono proprio sentir parlare, bollandolo come «retaggio preconciliare».
Talare deriva dal latino «talus», ovvero tallone, indicando pertanto un abito lungo che cada fino a coprire anche i talloni. La tradizione di impiegare abiti di tale foggia per le figure sacerdotali può essere fatta risalire fino al modo di vestire dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme. Nel corso dei secoli, l’abito ha subito lievi modifiche sia nei dettagli che nell’impiego ma, in linea di massima, gli elementi essenziali della talare si sono mantenuti immutati.
Vi sono differenti fogge dell’abito talare ma quella universalmente conosciuta è senza dubbio la talare romana. Le sue caratteristiche sono note quasi a tutti: si tratta di un abito relativamente stretto fino in vita, che poi scende più largo verso terra, chiuso lungo tutta la sua lunghezza da una serie di bottoni1. Tale caratteristica consente di poterla indossare anche senza fascia, specialmente quando viene impiegato come abito quotidiano. Il colletto, relativamente alto e rigido, presenta un’apertura centrale di forma quadrata, che consente di mostrare il sottostante colletto bianco, mentre le maniche terminano con dei paramani ripiegati. È inoltre dotata di due tasche esterne, oltre a quelle interne. Tendenzialmente come materiale si impiega la lana, sia per gli abiti invernali che per quelli estivi. La talare può essere più o meno pregiata a seconda dell’aggiunta di opzioni quali le filettature sui bordi o la fodera interna. La talare romana è impiegata, al netto di lievi differenze locali per alcuni dettagli, in quasi tutte le diocesi del mondo.
Altra foggia di talare ancora oggi impiegata è quella ambrosiana, in uso presso il clero dell’Arcidiocesi di Milano. La talare ambrosiana si distingue dalla romana per la presenza di soli cinque bottoni sotto il collo e, pertanto, si rende sempre necessario l’impiego della fascia per mantenerla chiusa in vita. Inoltre, il colletto è a girocollo, senza tagli, e meno alto di quello romano.
Una menzione merita anche la talare bresciana, della diocesi di Brescia. Si differenzia dalla romana per la vita più ampia e per avere solo il primo bottone visibile, venendo gli altri nascosti sotto una finta. Inoltre, al posto dei manicotti presenta dei bottoni sull’estremità delle maniche. Va detto che, al giorno d’oggi, molti presbiteri bresciani indossano la talare romana.
Vi sono poi altre tipologie di talare, come quella piemontese, quella novarese e quella mantovana che si discostano veramente poco da quella romana, principalmente nella forma del colletto, che può essere a girocollo (quella novarese e quella mantovana) o con un taglio a “V” (quella piemontese). Un tempo regolarmente in uso nelle diocesi dove erano impiegate (si noti, ad esempio, il colletto della talare di San Giovanni Bosco nelle varie raffigurazioni che lo riguardano), oggi sono spesso in disuso, quantomeno a livello di regolamentazione diocesana (nulla vieta, ovviamente, ai singoli sacerdoti di commissionare talari con tali caratteristiche).
Tutto quanto esposto finora si riferisce, ovviamente, alla talare impiegata dai sacerdoti semplici nonché dai prelati in quello che, almeno teoricamente, dovrebbe essere il loro abito quotidiano. Ulteriore discussione meritano invece le talari impiegate dai prelati nell’abito piano, ovvero l’abito da riservarsi alle occasioni pubbliche non liturgiche, e nell’abito corale, quello cioè da impiegare nei contesti liturgici in cui il presule non celebra né assiste dal trono oppure nella recita corale della liturgia delle ore2.
La talare impiegata nell’abito corale è di fatto la talare romana dei sacerdoti semplici con la differenza del colore: in luogo del nero3, si impiega il paonazzo con manicotti cremisi per i vescovi e i prelati che ne hanno diritto, il rosso ponsò per i cardinali e, ovviamente, il bianco per il papa. La talare corale presenta ancora oggi alcuni ornamenti come l’uso della seta sui manicotti, ma altri elementi distintivi quali la coda e l’abito interamente confezionato in seta ondulata sono stati aboliti4.
La talare dell’abito piano, così chiamato perché introdotto da Papa Pio IX, presenta alcune distinzioni in più. Il colore dell’abito, con l’eccezione del papa, è per tutti il nero e la distinzione gerarchica è consentita dal colore della filettatura e dei bottoni: paonazzo per i cappellani di Sua Santità (quelli che un tempo erano i prelati di mantellone), rosso rubino per i vescovi e gli altri prelati privi della dignità episcopale e il rosso ponsò per i cardinali. Il papa, i cardinali e i vescovi sovrappongono inoltre alla talare una mantella aperta sul davanti, detta pellegrina. In precedenza, la talare dell’abito piano aveva anche le sopramaniche, ovvero maniche doppie che partivano dalla spalla e scendevano, chiuse da bottoni, fino a poco sopra il gomito. Le sopramaniche sono state abolite dall’abito piano ad eccezione della talare del pontefice, anche se Papa Francesco ha optato per la loro eliminazione dalla propria veste.
Un colore alternativo per la talare dell’abito piano è il bianco. Esso può essere usato dai semplici sacerdoti fino ai cardinali che risiedono in territori con clima molto caldo o che vi si recano in viaggio, purché fascia, filettatura e bottoni siano del colore della propria dignità.
Alle regole generali si affiancano gli usi locali. Ad esempio, in alcune località è diffusa la consuetudine di aggiungere alla talare cinque bottoni sui manicotti. Vi sono poi sacerdoti che, come era uso un tempo per i parroci di Roma, sovrappongono la pellegrina nera al proprio abito.
Chi tuttavia ricorre sovente ad abiti di foggia piuttosto discostante da quella ufficiale è il clero dei Paesi di missione. Soprattutto in Africa, ma talvolta anche in America latina e in alcuni stati orientali, ci si può imbattere in abiti con le caratteristiche più disparate. Vi sono talari completamente bianche, oppure marroni, o ancora tendenti al grigio, alcune con aggiunta di pratico taschino ad uso esterno. Spesso sono prive di filettature, i bottoni in alcuni casi sono visibili e del colore corretto, in altri assumono invece il colore dell’abito, in altri ancora sono nascosti sotto una finta. Anche il colletto può differire, più o meno marcatamente, da quello romano, fino ad assumere la forma di un rigido girocollo sul modello coreano. Vi sono poi talari che sembrano richiamare la vecchia foggia d’abito in uso in passato presso i gesuiti. Insomma, potremmo dire che la talare finisce per assomigliare più ad una sorta di tonaca, difficilmente inquadrabile con criteri generali. Perfino la fascia, quando presente, tendenzialmente differisce da quelle che siamo abituati a vedere dalle nostre parti, essendo spesso di larghezza inferiore, con frange assenti o comunque meno vistose, in parte simile a quella impiegata dagli anglicani.
Tali stravaganze sono ravvisabili anche presso i gruppi che si richiamano alla Chiesa cattolica pur senza esserne parte, come, ad esempio, la galassia sedevacantista, in cui ogni organizzazione ha consuetudini proprie. Ci permettiamo una menzione nei confronti della cosiddetta «Chiesa palmariana», organizzazione avente sede a Palmar de Troya, in Spagna, che può vantare, oltre alla normale organizzazione ecclesiastica, perfino un proprio papa con annesso collegio cardinalizio. Ebbene, i palmariani ci regalano visioni di soprabiti azzurro-oro per il «pontefice», talvolta intervallati da mantelli rossi ermellinati, fino all’immancabile berretta con fiocco, bianca o rossa a seconda del grado.
In sostanza, potremmo affermare che nella Curia romana si osservava, quantomeno fino a qualche anno fa, un certo rigore e uniformità riguardo l’uso degli abiti, mentre a livello delle singole diocesi la situazione rimane più variopinta. Ormai, però, è doveroso ammettere che anche a Roma la situazione è mutata e piuttosto che rispettare le direttive, formalmente ancora in vigore, buona parte del clero preferisce seguire i propri gusti personali, così che si spazia dai presuli rigorosamente in abito piano, camicia con gemelli e croce dorata fino al sacerdote che intervista il pontefice in giacca e jeans.
Da parte nostra, ci limitiamo a ricordare che, secondo il Direttorio emanato dalla Congregazione per il Clero nel 1994, il clero, fatti salvi casi di eccezionale gravità (pensiamo ad esempio a un presbitero operante in uno stato ostile verso i cattolici), è tenuto ad indossare un abito che consenta una chiara distinzione rispetto ai i laici. Pertanto, alla talare si può affiancare l’uso del clergyman, purché tuttavia si abbia chiaro che la prima costituisce il vero abito del sacerdote cattolico e che venga impiegata quando le circostanze lo richiedono. In ogni caso, l’abito ecclesiastico non esprime solo un’indicazione circa la moralità e i comportamenti della persona che lo indossa ma, soprattutto, ne ribadisce l’appartenenza a Dio, il «non essere del mondo», e permette ai fedeli di riconoscere la figura sacerdotale in modo chiaro e visibile. In quest’ottica, anche alla luce dei martiri che per il loro abito hanno dato il sangue (viene in mente il beato Rolando Rivi), la sempre più diffusa incuria dei sacerdoti e la loro tendenza a uniformarsi ai laici nel vestire desta particolare sconforto. Preghiamo affinché il Signore ci mandi santi sacerdoti che non si riducano al ruolo di assistenti sociali ma che siano consapevoli della missione loro affidata e che, tra le altre virtù, comprendano il profondo significato e l’importanza dell’abito ecclesiastico.
Note
- Storicamente erano in numero di 33, per simboleggiare gli anni del Signore. Oggi, però, si preferisce mantenere uno spazio costante tra un bottone e l’altro e, così, il loro numero totale varia a seconda dell’altezza del sacerdote.
- Le regole che disciplinano il corretto uso dell’abito (ordinario, piano o corale) non sono nette come in passato. Ad esempio, l’abito corale può essere impiegato anche durante la visita del Sommo Pontefice o in occasioni non ecclesiastiche ma particolarmente solenni come un incontro con il Capo dello Stato; di fatto, però, simili impieghi sono sempre più una rarità. Generalmente, ormai si indossa l’abito corale durante le occasioni liturgiche o altri eventi di preghiera, laddove il suo uso risulti agevole. Al contrario, l’abito piano è spesso impiegato, in modo improprio, quando al presule risulti poco pratico l’uso dell’abito corale.
- L’uso del nero come colore proprio dell’abito ecclesiastico venne regolamentato con un decreto di Papa Urbano VIII nel 1624.
- L’istruzione Ut sive sollicite della Segreteria di Stato del 1969 semplificò largamente sia le norme che regolamentavano l’abito corale che quello piano, abolendo molti elementi considerati superati. Tra le vittime vi furono, a titolo di esempio, la fascia coi fiocchi, l’uso della mantelletta, il cappuccio della mozzetta, le scarpe con le fibbie e tanti altri elementi che lasciamo scoprire alla curiosità del lettore.