Nel 2016 il filosofo genovese Paolo De Lucia, ne La valle dell’ombra. Percorsi del tragico nella filosofia italiana del Novecento, espone un dialogo tra Pier Paolo Ottonello, Renato Lazzarini, Armando Carlini e Sergio Quinzio, quattro grandi esponenti di quel tragicismo che dinanzi al pregiato pezzo di carne, magistralmente cucinato dal famoso chef pluristellato,non può fare a meno di pensare alla carcassa della bestia macellata e che risulta essere il miglior alleato dell’ascetismo cristiano, dato che nessun uomo può considerare desiderabile una donna considerata come un contenitore di sangue e visceri e non sub specie pulchritudinis.
Poi si affronta la questione che sorge sulla conciliabilità tra questo legittimo atteggiamento mentale e la bontà della creazione divina, partecipe di quella bontà pienamente predicabile in primis di Dio e in secundis delle Sue opere: la risoluzione del quesito è fornita da Tommaso Campanella, filosofo e teologo calabrese vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo che, superata l’iniziale fase di pensiero eretico giovanile, per la quale fu processato dall’Inquisizione, ritornò nell’alveo dell’ortodossia dottrinale cattolica e sviluppò il concetto di residuo meontologico, cioè di quel male che Agostino considera deficienza (l’essere privo di indipendenza ontologica), presente in minima parte in tutta la bellezza del Creato del Padre, frutto di quella libertà tipicamente umana tanto di operare il bene quanto di agiremale seguendo «li mal protesi nervi» (Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, canto XV, verso 115), come si comportò il vescovo cattolico italiano Andrea dei Mozzi, uomo, secondo il letterato italiano Benvenuto da Imola, «disonestissimo e di poco senno».
Sia nella forma ordinaria che nella forma straordinaria del Rito Romano, la liturgia della Solemnitas In omnium Sanctorum prevede come lettura evangelica il passo del Vangelo di Matteo contenente le Beatitudini (Evangeliumsecundum Mattheum V, I-XI), la prima («Beati pauperesspiritu, quoniam ipsorum est regnum caelorum») e l’ultima («Beati estis cum maledixerint vobis et persecuti vos fuerint etdixerint omne malum adversum vos, mentientes,
propter me. Gaudete et exsultate, quoniam merces vestra copiosa est in caelis; sic enim persecuti sunt prophetas, qui fuerunt ante vos») proclamate al tempo presente per sottolineare il fatto che «nunc filii Dei sumus» (Epistula I Ioannis III, II), ma poiché «nondum manifestatum est quid erimus» le restanti beatitudini, poste in posizione centrale, sono proclamate al futuro: la definizione otto volte ripetuta di cosa sia la beatitudine ecco che diventa il miglior antidoto contro tutte quelle filosofie che sviscerano la realizzazione dell’hic etnunc dell’essere umano, da Epicuro e tutti i materialisti dopo e alla scuola di lui, «che l’anima col corpo morta fanno» (Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, canto X, verso 15), a Friedrich Nietzsche, il quale squalifica completamente tutta la morale evangelica catalogandola sotto il segno della morale degli schiavi, (gli sconfitti della storia che elevano la loro miserevole condizione a norma di vita), quando invece la nuova etica proposta dal filosofo di Rocken è quella dell’amor fati e della fedeltà alla terra, avendo pienamente fatto proprio Il peso più grande, quel «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» proferito nell’aforisma 341, la prima apparizione dell’eterno ritorno dell’uguale, reminiscenza della concezione temporale ciclica tipica del mondo greco e della figura mitologica dell’uroboro.
Il giorno di Ognissanti, giorno di festa per la «gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre» (prefazio), risale ai primi secoli del cristianesimo, inizialmente celebrata il 13 maggio e poi traslata all’attuale primo giorno dell’undicesimo mese dell’anno, in ricordo della consacrazione del Pantheon a Santa Maria ad Martyres, in occasione dell’anniversario della conversione dell’edificio, simbolo del carattere sincretistico del mondo pagano a chiesa cristiana dedicata al culto del Dio Uno e Trino.
La Solennità di Tutti i Santi ben può dirsi dono della misericordia divina all’umanità – «Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi» (orazione colletta) – e invito per tutto il popolo cristiano a conformarsi agli insigni modelli di santità che la storia – magistra vitae – ci propone, innanzitutto i martiri, coloro che violentemente hannoimmolano la vita in testimonianza della verità della fede cattolica, quindi i confessori e tutte le altre categorie di santi venerati attualmente, diverse figure di ascesa dell’uomo alla sua vera natura, al suo fine ultimo, assimilabili alle varie facce di un unico brillante diamante: come sapientemente ha scritto San Bernardo in uno dei suoi Discorsi, quando veneriamo la memoria dei santi noi «facciamo i nostri interessi, non i loro», data l’inutilità del nostro tributo di gloria e degli onori verso di Loro.
Imitiamo perciò il glorioso esempio di santità dei santi ufficialmente canonizzati dalla Chiesa cattolica, ma anche di tutti coloro che già godono della beatifica visione divina, di coloro, per tornare ai concetti espressi in apertura del presente articolo, che, facendo propria una visione tragica dell’umana esistenza, sono riusciti a vincere le tentazioni dei sensi, superando il residuo meontologico della vita, che altro non è che una battaglia, che come dice Giobbe «Militia est vita hominis super terram», potrà dirsi vinta quando anche noi saremo assunti all’empirea condizione di felicità.