S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore
(Venezia / Basilica del Santissimo Redentore, 16 luglio 2023)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Stimate autorità civili e militari, confratelli nel sacerdozio, diaconi, persone consacrate, fedeli laici, Fraternità Cappuccina della Giudecca,
anche quest’anno viviamo la solennità del SS. Redentore rinnovando l’antico voto fatto dalla città di Venezia ed invocando il dono della pace.
Purtroppo, come abbiamo saputo, la notte di festa di ieri si è conclusa con un tragico evento, a causa di un incidente avvenuto qui in laguna e che ha portato alla morte un giovane di 28 anni. Lo vogliamo ricordare nella nostra preghiera e affidare al Signore la sua famiglia e i suoi amici, ora nel dolore.
La solennità del Redentore manifesta, ancora una volta, l’amore di Dio che si offre a noi come pastore e – lo abbiamo sentito nella prima lettura (Ez 34,11-16) – come Colui che va alla ricerca delle pecore ”disperse”, specialmente delle più affaticate, disorientate e bisognose di cura.
Abbiamo qui la base di ogni vero cammino educante che non vuole lasciare indietro nessuno. Ciò vale, oggi, in modo particolare per i ragazzi e i giovani che ultimamente sempre più, purtroppo, sono i protagonisti di avvenimenti tragici che riguardano anche la cronaca “nera”.
Penso al terribile incidente che a Casal Palocco ha portato alla morte un bambino di 5 anni (Manuel) investito da un’autovettura “esclusiva” presa a noleggio e condotta ad altissima velocità da un gruppo di “Youtuber”, con lo solo scopo di fare video da lanciare nella rete.
Penso alla ragazza 17enne (Michelle) di Primavalle uccisa brutalmente, per motivi ancora non del tutto chiari, da un coetaneo che non ha avuto pietà nemmeno del cadavere tentando in modo macabro e maldestro di disfarsene.
Penso ancora al giovane di 20 anni che a Casal di Principe ha ucciso un 17enne nel corso di una lite originata, si pensa, per una ragazza “contesa”.
Il ricordo giunge poi ai drammatici eventi che hanno scosso la Francia nelle settimane scorse, con la morte del 17enne Nahel, ucciso da un poliziotto, e la “rivolta delle banlieues” che ha coinvolto molti giovanissimi, protagonisti anche di gravi atti di violenza.
Ci troviamo dinanzi a situazioni che vanno oltre. C’è qualcosa di inaccettabile in questi fatti. Emerge così, con grande forza, il tema dell’educazione e dell’accompagnamento dei giovani che interpella la Chiesa e la società.
La liturgia, oggi, presenta, nella prima lettura e nel salmo responsoriale (Sal 22), la figura di Dio pastore che si prende cura del suo gregge: “…io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna… Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita… le pascerò con giustizia” (Ez 34,11.16). Dio è il pastore che va in cerca delle sue pecore “nei giorni nuvolosi e di caligine” (Ez 34,12).
Nel salmo troviamo gli stessi temi: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino…” (Sal 22,1-3). Il Signore – buon pastore – è presente anche quando il gregge attraversa “una valle oscura” ed è lui stesso a “preparare una mensa”, a dare sostegno senza abbandonare mai nessuno (cfr. Sal 22,4-5).
L’educazione richiede, prima di ogni altra cosa, la presenza dell’educatore che dice amore e, insieme, che “ho tempo per te”.
Già nell’Antico Testamento, con la predicazione profetica, Dio è – per il suo popolo – padre e madre (cfr. Is 49, 14-15) e mai si dimentica dei propri figli, commuovendosi per essi. Certo, il Signore è molto più di un educatore e l’immagine del pastore ne racconta l’atteggiamento.
L’educazione avviene anche in un contesto sociale, ha a che fare con la società in modo concreto e reale poiché riguarda la vita delle persone, delle famiglie e della città a cui apparteniamo.
Educare non è mai stato una cosa semplice; oggi, però, al tempo dei media, della rete e delle conquiste della tecnoscienza è compito fondamentale. L’educatore deve essere persona saggia, cordiale, presente e che sempre sa proporsi e si fa percepire come educatore.
Gli adolescenti, oggi, sono depositari di un potere che, qualche anno fa, ai loro coetanei era sconosciuto; hanno bisogno, quindi, d’essere affiancati da educatori (genitori, insegnanti, sacerdoti, catechisti) preparati, all’altezza. Gli adolescenti possono, facilmente, perdere di vista i loro limiti, le proporzioni e la giusta prospettiva giungendo ad ingigantire il proprio “io” confondendo il virtuale col reale, i desideri con i diritti.
Viviamo, nel bene e nel male, la società della comunicazione resa possibile dalle tecnoscienze. Dobbiamo allora chiederci più spesso: quanto è autentica la comunicazione nella rete? O piuttosto, invece di allargare le relazioni, non finisce per dare libero spazio a “io” frustrati nella vita reale, solo alla ricerca di visibilità, per essere conosciuti, costi quel che costi e non avendo, tra l’altro, nulla da perdere? Tutto avviene con la protezione di un semianonimato e in una relazione con “un” altro che è sì “presente” (on line) ma, nella realtà, è “assente”, sfugge e, spesso, rimane sconosciuto.
La rete è realtà “disincarnata” che, proprio nel momento in cui sembra abbattere le barriere, in realtà, prende sempre più le distanze dalla corporeità, da ciò che si può incontrare (e toccare) nelle sue sfumature.
Le nuove forme di comunicazione abbattono i tempi d’attesa – cosa da apprezzare – ma, insieme, rischiano di farci perdere aspetti fondamentali di umanità.
Oggi si parla di “frattura” tra generazioni; bisogna però essere onesti e riconoscere che tale frattura non è causa della crisi educativa ma piuttosto ne è l’effetto.
Nella scelta educativa è poi essenziale il rapporto libertà/ responsabilità; un rapporto che chiama in causa sia gli educatori sia chi è educato: giovani e adulti, studenti e insegnanti, figli e genitori.
Il riferimento alla libertà e alla responsabilità è fondamentale nell’alleanza educativa che si dà nel contesto culturale della nostra società, caratterizzato da riferimenti sempre più “liquidi”, in cui le domande riguardano quasi esclusivamente il “come” e raramente il “perché” delle cose, in cui tutto è in discussione – a cominciare dal valore della persona, del bene, del vero, del bello – in cui domina il “politicamente corretto”, pena l’emarginazione.
Volontà, ragione, fede incerte o deboli non sono in grado di esprimere dei “sì” decisi e compiuti, mentre l’amore si misura sulla donazione personale e in un’ottica di sacrificio. Se mancano queste dimensioni, l’amore finisce per esaurirsi in pura gratificazione o appagamento.
Le parole hanno un significato preciso e, vanno, perciò, usate a partire da esso: l’amore non è appagamento. Altrimenti illudiamo e ci illudiamo, formando persone che credono di amare e di amarsi ma, in realtà, cercano solo forme di gratificazione e appagamento e ciò in tutte le scelte di vita.
Amare, come il prendersi cura, significa gioire dell’altro che cresce e che non è mia proprietà. Quanto è importante, oggi, saper educare un figlio o una figlia in modo che siano in grado di avere relazioni libere, rispettose, buone!
La stessa dolorosa piaga dei femminicidi nasce dal non sapere amare. Amare vuol dire, prima di tutto, rispettare; è necessario educare i figli ad una scelta affettiva matura.
Amare, donare, generare, rispettare sono parole che si richiamano a vicenda, sono quasi sinonime.
“Dio (…) ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Gv 3,15).
Educare richiede vicinanza e fiducia, rispetto e stima; è, in fondo, questo il primo segnale da cui un bambino dovrebbe essere raggiunto. Sa spendersi per gli altri solo chi ha visto persone che hanno dato sé per altri.
Conosciamo la necessità di una reale alleanza educativa tra famiglia (i genitori), scuola (gli insegnanti), Chiesa (catechisti, educatori, sacerdoti); tali soggetti sono chiamati in causa per il bene comune.
Un altro elemento irrinunciabile nell’educazione è l’autorevolezza che rende possibile e credibile l’esercizio dell’autorità. L’autorevolezza è fatta di coerenza di vita e del coinvolgimento della persona in ciò che trasmette e insegna. Proviene da un amore autentico, vissuto, condiviso, non da una caricatura dell’amore.
Educare, infine, è sempre un fatto di libertà; si educa alla libertà e se ne accetta il rischio. L’educazione vera non consiste solo nell’appello al libero arbitrio, spesso capriccioso, ma nel rispondere a ciò che si percepisce come vero, bello e buono, accogliendo le regole della vita quotidiana che rendono possibile lo stare insieme in famiglia, a scuola, con gli amici, in città.
Educare, dunque, è segno di responsabilità e invito alla responsabilità; una responsabilità condivisa che riguarda tutti e che, per questo, acquisisce rilevanza sociale in quanto entra nella vita di una città, di una regione, di una nazione, dell’intera famiglia umana.
Anche la Chiesa è all’interno di tale dinamica e mette in campo persone, risorse, luoghi e tempi che sono dedicati alla formazione. Per l’educatore credente, ad iniziare dai genitori, è fondamentale educare alla preghiera, ossia al senso di Dio e alla sua presenza nella vita delle persone.
Tutto ciò genera la possibilità di avere un riferimento e un termine ultimo che è più grande delle nostre vicende umane, liete o tragiche che siamo: Dio è più grande del cuore dell’uomo!
Educare, in fondo, è condurre l’io creaturale al noi dell’unico Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.