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Fidarsi di Dio, lasciarsi condurre con fiducia dalla Sua provvidenza e volontà

Ma a questo punto del cammino della sua vita, Pietro ha imparato a fidarsi, a lasciar fare, ad attendere.

Omelia pronunciata nella Chiesa di San Salvatore in Gerusalemme
nella S. Messa pontificale per le ordinazioni presbiterali
29-06-2021

Carissimi fratelli in Cristo e in San Francesco,

Caro padre Custode,

il Signore vi dia pace!

Come è ormai tradizione, anche quest’anno la Chiesa di Gerusalemme festeggia insieme ai fratelli della Custodia di Terra Santa la solennità dei Santi Pietro e Paolo e in modo particolare gioisce per nuovi sacerdoti che entrano al servizio della Chiesa attraverso la famiglia francescana.

E ancora una volta vediamo come la Chiesa di Gerusalemme, in questo caso attraverso la Custodia di Terra Santa, prepara e dona alla chiesa nuovi sacerdoti che porteranno in tante e diverse parti del mondo la loro esperienza di Terra Santa, acquisita qui in anni di studio.

Vorrei cogliere, dalla Parola che abbiamo ascoltato, alcuni elementi che possano illuminare da una parte le figure di Pietro e di Paolo, ma dall’altra anche il senso di ciò che stiamo vivendo noi, oggi, qui.

Il primo elemento è tratto dalla prima Lettura.

A Gerusalemme è scoppiata una prima persecuzione contro la comunità dei credenti in Cristo. Erode ha capito che, per accattivarsi la benevolenza del popolo, poteva essere utile perseguitare i seguaci di Gesù e perciò fa uccidere Giacomo. Vede che questo piace, e così fa arrestare anche Pietro. Sono i giorni della Pasqua, per cui tutto si ferma, in attesa che la festa finisca e si possa affrontare il caso.

Il racconto dice che Pietro, in carcere, sta tranquillamente dormendo. Se pensiamo alla situazione, ci rendiamo conto che il tutto è assai strano: se Giacomo era appena stato ucciso e la cosa era stata giudicata positivamente, Pietro poteva ben pensare che la stessa sorte sarebbe toccata anche a lui. Inoltre, era chiuso nella cella di un carcere, cosa non particolarmente confortevole. Era piantonato da due soldati e legato con due catene… Eppure Pietro dorme.

Non è questo il Pietro che conosciamo dai racconti evangelici! I Vangeli ci raccontano di un Pietro irruento, dinamico, impulsivo; attendere pazientemente non sembrava essere la sua caratteristica principale. Ci sono, nei vangeli, momenti in cui Pietro dorme: ma sono esattamente i momenti in cui avrebbe dovuto rimanere sveglio, ovvero sul Tabor e al Getsemani. E quando, al momento della traversata del lago in tempesta, Gesù dorme, Pietro e gli altri vanno a svegliarlo, perché calmi le acque…

Ma a questo punto del cammino della sua vita, Pietro ha imparato a fidarsi, a lasciar fare, ad attendere. Ha imparato che la sua vita è nelle mani di qualcun altro, a cui appartiene, e non si angustia, non ha paura. Può vivere o può morire, non importa più di tanto. L’importante è che il suo vivere e il suo morire dicano la vita e la morte del suo Signore, Gesù, che l’ha salvato dalla morte.

Come dicevo, non è sempre stato così nella vita di Pietro. Sono tanti gli episodi, nei vangeli, in cui Pietro deve salvare lui la situazione, deve salvare Gesù stesso dalla morte; dopo l’episodio di Cesarea (Mt 16,22; Mc 8,32), ad esempio, o nel Getsemani, quando taglia l’orecchio ad un inserviente (Gv 18, 10), e tanti altri.

Pietro ora è un uomo libero, perché ha messo la sua vita nelle mani di Qualcun altro, e non deve più difendersi, non deve più salvarsi da solo.

Questo passaggio credo possa essere in indicazione anche per voi e per tutti noi. Quello di fidarsi di Dio, lasciarsi condurre con fiducia dalla Sua provvidenza e volontà. Se siete arrivati fin qui, oggi, è certamente grazie a tante persone che si sono fatte strumento del desiderio di Dio. E come vi ha condotto fin qui, dalle diverse parti del mondo, il Signore vi condurrà chissà in quali altre località e in quali servizi e ministeri. Continuate a fidarvi di Dio, che vi ha condotti fin qui!

Fidarsi di Dio, lasciarsi condurre con fiducia dalla Sua provvidenza e volontà

Come Pietro, il primo Pietro, abbiamo sempre la tentazione di avere tutto sotto controllo, di avere noi le idee chiare su cosa sia necessario fare, di quale direzione prendere e far prendere.

Con il sacerdozio, si sa, si acquisisce uno stato di maggiore autonomia, si ricevono servizi di ministero che lasciano ampi margini di manovra. E questo può indurci a pensare che possiamo farcela da soli e che il nostro modo di pensare e le nostre prospettive siano necessarie e che si debba quindi fare come si pensa noi. Vogliamo decidere noi, insomma, come salvarci.

E quando non succede, sono tragedie, perché si comincia a dire che non si è ascoltati, non c’è attenzione ai bisogni reali (che sono poi i nostri), che non c’è ascolto, dialogo, e così via.

Ma non è così che funziona nella Chiesa. Fin dal principio. Da sempre, se ci facciamo caso, sembra quasi che nella Chiesa non facciamo nulla di quanto dovrebbe essere logico fare, dal punto di vista delle strategie di successo. E quando, eventualmente, cerchiamo di adottare strategie, in genere le sbagliamo tutte. Dopo l’uccisione di Giacomo, ad esempio, sarebbe stato umanamente necessario adottare alcune strategie di sicurezza, fare attenzione a come ci si comportava, misurare le parole, abbassare i toni, calmare le acque… Ma non è così. Pietro invece si preoccupa solo di annunciare che Cristo è il kyrios, e basta. Non gli interessa altro che parlare di salvezza dell’anima, incurante della sua vita. E per questo finisce in carcere, ma anche questo non lo turba più di tanto. Fidarsi di Dio significa lasciare fare, preoccuparsi dell’essenziale che è la salvezza.

Il sacerdote, infatti, è innanzitutto colui che attraverso i sacramenti si fa portatore di salvezza, non qualcuno che soddisfa i bisogni o che realizza imprese o salva la parrocchia. Si vedrà nel tempo se la parrocchia è stata raggiunta dalla vera salvezza, se cioè il sacerdote ha indirizzato tutti a Cristo o li ha semplicemente legati a sé. A volte succede di avere sacerdoti che vengono presentati come quelli che hanno “salvato” la parrocchia, per le iniziative e le tante attività. Ma poi, appena si spostano altrove, tutto crolla. Che ne è stata allora di quella “salvezza”?

Non legate la gente a voi e al vostro ego, ma portateli a Cristo. È questo il compito del sacerdote. Solo ciò che sarà costruito nella gratuità e nella libertà resterà, mentre ciò che sarà legato a voi finirà con voi.

Mi auguro, quindi, che prima di ogni cosa facciate voi per primi l’esperienza di salvezza. Come abbiamo visto in Atti, Pietro ha cambiato la sua vita, quando ha capito che era salvato, redento, unito a Cristo in maniera definitiva e che niente più avrebbe potuto separarlo da lui, nemmeno la morte. Soltanto un salvato può testimoniare la salvezza.

La gente da voi aspetterà innanzitutto questo. Porteranno davanti a voi tanti bisogni, necessità, richieste e sarete tentati di buttarvi a capofitto dentro questo mare di povertà che si manifesterà di fronte a voi. E sarà importante ascoltare i tanti bisogni che vi porteranno, ma non cadete nella tentazione di presumere di voler fare tutto. Fissate le priorità. E la prima fra tutte è quella di stare con loro, ma non come coloro che portano la vostra semplice compagnia umana, bensì come coloro che portano la presenza e la consolazione di Cristo.

Il modo in cui dovrete parlare di Gesù come sacerdoti dovrà in un certo senso riportarvi a quanto avete già proclamato con la vostra professione religiosa. La gente non attenderà da voi di sentire un discorso su Gesù, ma di capire dalla vostra vita il vostro desiderio di lui, di stare dentro quella domanda diretta che Gesù, nel Vangelo di oggi, ha fatto ai suoi discepoli e che continua a fare ancora a ciascuno di voi, ogni giorno, sempre: chi sono io per te?

Fidarsi di Dio, lasciarsi condurre con fiducia dalla Sua provvidenza e volontà

La seconda lettura, riferita all’apostolo Paolo, ci porta nella stessa direzione. Anche Paolo si sta confrontando con la morte: gli eventi della vita gli stanno facendo pensare che ormai è giunto il termine della corsa. E, al termine della corsa, Paolo fa una sorta di bilancio, di rilettura. Dice che a questo punto gli è rimasta una cosa sola, ovvero la fede: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7).

Questo è il grande tesoro di Paolo, a confronto del quale tutto il resto è niente, è spazzatura. Tutto il resto, tutte le sue battaglie, le sue fatiche, i suoi viaggi, la sua predicazione…tutto svanisce, e rimane una sola cosa: che Paolo crede. E crede innanzitutto in Gesù, che rimane attivo, vivo. Quell’incontro sulla via di Damasco, che gli ha capovolto l’esistenza, l’ha reso un credente, l’ha trasformato da osservante in obbediente, lo ha accompagnato e sostenuto per tutta la sua vita, con tutte le sue peripezie. Ed è rimasto fedele.

Per Paolo la fede si riferisce a questo evento, ovvero a Gesù Cristo, alla sua morte e alla sua risurrezione, e al significato che questo evento ha per l’uomo, quello di giustificarlo, di salvarlo dalla legge e, quindi, dalla morte. La fede è lasciarci raggiungere da questo amore, dalla grazia che ci è riversata dentro, che ci unisce alla morte e alla risurrezione di Cristo.

Conservare, comunicare, custodire la fede.

In genere noi colleghiamo la parola fede a qualcosa di teorico e istituzionale, ad un patrimonio di dottrina da conservare, al catechismo… E ciò è certamente vero, ma un po’ riduttivo.

Conservare la fede, significa rimanere fedeli a tutta la verità della nostra esperienza religiosa, non rinunciare al Gesù che abbiamo incontrato e chi ci ha portato fin qui, che è uomo e Dio. Vuol dire fare della nostra vita una risposta totale e senza parzialità alla domanda che Gesù pone nel Vangelo: voi chi dite che io sia?, senza ammiccamenti alle varie mode periodiche, che in ogni tempo in maniera diversa, ma sempre uguale, vogliono ridurre Gesù ad un personaggio che può stare dentro le nostre comprensioni umane: un amico, un compagno di viaggio, un fratello, ecc. Certamente è anche tutto questo, ma è innanzitutto il Kyrios, il Signore, vincitore del peccato e della morte.

Pietro e Paolo, in maniera diversa, hanno rifiutato ogni forma di compromesso. Non hanno accettato di ridimensionare la loro esperienza di Gesù, di adattarlo.

Attraverso i sacramenti, l’annuncio della Parola e la testimonianza della vita, il sacerdote comunica una salvezza che scaturisce da quell’esperienza. Avrete una grande responsabilità. Molte persone riceveranno la fede e saranno nutrite nella fede dal pane che voi darete loro, da quello che voi insegnerete e trasmetterete. Non permettetevi di appropriarvi dell’esperienza della fede e della verità per comunicare le vostre idee di Cristo e di Chiesa, le vostre teorie. Il vostro ministero non è un patrimonio personale e vostro possesso, ma deve rimandare a Cristo e alla Chiesa.

Non c’è esperienza di Cristo senza la Chiesa. Decidersi per Cristo, porta a riconoscersi Chiesa. Il vostro ministero è chiamato a costruire comunità, a fare unità. Da qui e solo da qui si capirà quale pane distribuirete alle persone a voi affidate e se parlerete da salvati. Se sarete capaci di costruire le comunità, se sarete pastori che hanno cura per il proprio gregge e che lo difendono dai lupi che vogliono rapire e disperdere (cf. Gv 10,12).

L’obbedienza è il criterio di comprensione della natura del vostro ministero. Nell’obbedienza alla Chiesa, nelle sue diverse forme, si manifesterà concretamente la libertà e la gratuità del vostro ministero. Attraverso l’obbedienza si comprenderà chiaramente che la vostra vita è un servizio e un dono e non un possesso.

Possa allora il vostro servizio essere un piccolo riflesso della salvezza che Paolo e Pietro hanno testimoniato e che noi oggi, attraverso loro, celebriamo.

Auguri per voi, le vostre famiglie, per la famiglia francescana e per le vostre rispettive provincie religiose.

Sua Beatitudine Pierbattista Pizzaballa
Patriarca Latino di Gerusalemme


Fonte: lpj.org

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