Spesse volte, nella S. Scrittura, ritroviamo l’autodesignazione di Gesù quale figlio dell’uomo. Questa espressione rivela la coscienza messianica che Cristo ha di sé. Questa proviene dal settimo capitolo del libro di Daniele. Nella visione, il profeta, dopo la scomparsa delle dittature, simboleggiate da degli animali, vede sorgere un nuovo regno. Egli vede apparire con le nubi del cielo dinanzi al trono del vegliardo una figura di figlio dell’uomo, in contrapposizione alle figure animali, che simboleggiano i regni che scompaiono. Nel figlio dell’uomo non si dovrà quindi vedere una figura individuale, ma il « popolo dei santi dell’Altissimo », che è simboleggiato dal figlio dell’uomo. Nel giudaismo del periodo precristiano il figlio dell’uomo della visione di Daniele venne però inteso sovente come una persona individuale. Questo è essenzialmente dovuto al fatto che il giudaismo attendeva la liberazione dalla schiavitù da un singolo individuo, che li avrebbe condotti al dominio mondiale, politico ed economico. Se Cristo applicò a se stesso il termine non familiare al popolo, fu mosso invece dall’intenzione di tenere lontane le aspettative messianiche che guardavano alla politica e al potere.
Gesù poi si chiama “figlio dell’uomo” perché voleva intendere in senso diretto il fatto di essere Figlio della Vergine Maria. In questa luce, quindi, rileggiamo l’affermazione di Gesù: “Il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con i suoi angeli; poi darà a ciascuno secondo quello delle sue azioni” (Mt 16:27). Si fa riferimento quindi alla doppia natura, quella umana assunta, quella divina posseduta da Gesù. Dove c’è Gesù, c’è anche Maria, la corredentrice.