Quando si pensa alla gerarchia della Chiesa cattolica, vengono in mente molte figure che occupano un preciso posto per importanza e per giurisdizione posseduta: al vertice troviamo ovviamente il Romano Pontefice, poi i cardinali di Santa Romana Chiesa, i patriarchi, gli arcivescovi, i vescovi, le varie classi dei monsignori, eccetera.
Tuttavia, per la maggior parte dei fedeli semplici la figura che rappresenta la presenza della Chiesa cattolica nella propria quotidianità è, senza ombra di dubbio, il proprio parroco. Il parroco, infatti, è colui al quale ci si rivolge per un consulto spirituale, è colui dal quale andiamo a confessare i peccati, è colui che ascoltiamo durante le omelie domenicali, è colui che amministra il Battesimo a un nuovo membro della Chiesa, è colui che segue i pargoli nel percorso di catechesi, è colui che accompagna nel loro ultimo viaggio i cari defunti ed è anche colui al quale ci rivolgiamo per il disbrigo di determinate pratiche burocratiche che possono rendersi necessarie (certificati di Battesimo, di Cresima, eccetera). Se da un lato è pur vero che con il diffondersi delle comunità pastorali questa figura non sempre è il sacerdote di primo riferimento dei fedeli, dall’altro egli continua ad essere tutt’oggi presenza indispensabile ed essenziale.
Viene da chiedersi, pertanto, chi sia nello specifico il parroco e in quale senso la sua figura differisca da quella di un semplice sacerdote. Concediamoci quindi un riferimento al Codice di Diritto Canonico: «Il parroco è il pastore proprio della parrocchia affidatagli, esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l’autorità del Vescovo diocesano, con il quale è chiamato a partecipare al ministero di Cristo, per compiere al servizio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l’apporto dei fedeli laici, a norma del diritto».[1]
«Pastore proprio della parrocchia» è sicuramente la funzione che più incarna l’essenza del parroco. Questo aspetto, infatti, si rende visibile anche nella liturgia, in occasione della presa di possesso della parrocchia da parte del nuovo curato. Probabilmente in molti hanno sentito parlare della presa di possesso di una diocesi da parte di un vescovo eletto, ma anche l’ingresso di un nuovo parroco presenta aspetti peculiari ed elementi significativi che si inseriscono nella liturgia.
In primo luogo, bisogna ricordarsi di distinguere la presa di possesso della parrocchia dall’ingresso solenne: si tratta di due aspetti distinti i quali, tuttavia, vengono molto spesso usati come sinonimi. Simile distinzione vale anche per i vescovi: la presa di possesso vescovile, difatti, è un atto formale che sancisce ufficialmente l’assunzione delle funzioni proprie dell’Ordinario da parte dell’eletto vescovo. Di essa bisogna dare comunicazione ufficiale alla Santa Sede e dalla presa di possesso in poi il nome del vescovo viene inserito nel Canone della Messa. Al contrario, l’ingresso solenne è l’occasione in cui il vescovo, durante una festosa cerimonia, incontra per la prima volta il gregge che gli viene affidato e viene riconosciuto da questo come pastore; in questa occasione, viene spesso celebrata una Messa pontificale nella cattedrale e vengono inserite apposite intenzioni di preghiera per il vescovo.
Questa distinzione può essere tranquillamente applicata anche nei riguardi di un nuovo parroco, con la precisazione che, mentre nel caso del vescovo la scelta di far coincidere la presa di possesso con l’ingresso solenne può essere valutata in ogni singolo caso, il nuovo parroco quasi sempre prende possesso della parrocchia in occasione del proprio ingresso solenne.
Il rito dell’ingresso solenne del parroco è rimasto piuttosto invariato anche dopo la riforma liturgica. Storicamente, tale funzione doveva essere presieduta dal vescovo diocesano o da un proprio delegato. Il nuovo parroco veniva accolto presso una chiesa secondaria o un oratorio dal clero e dal popolo del luogo e veniva invitato ad assumere le insegne parrocchiali, che molto spesso consistevano in una mozzetta di diversi colori a seconda della diocesi di appartenenza e dell’eventuale titolo onorifico associato (es. arciprete, prevosto). Ad esempio, nell’Arcidiocesi di Milano i parroci “normali” hanno diritto a una mozzetta nera con bordatura violacea mentre i parroci prevosti a mozzetta paonazza e aggiunta di fiocco nero sulla berretta (la berretta ambrosiana di base è tipicamente senza fiocco). Sempre a Milano, i prevosti avevano e hanno tuttora diritto all’uso di un particolare bastone liturgico simile al pastorale, la ferula, che poteva essere portato in tutte le occasioni solenni e, a differenza della mitra semplice, anche alla presenza di un vescovo.
Assunte le insegne, aveva inizio la processione verso la chiesa parrocchiale, entrando nella quale veniva letto il decreto di nomina del vescovo. Poi il nuovo parroco procedeva con l’aspersione di sé e del popolo mentre saliva verso il presbiterio, accompagnato dal vescovo (o, come si è detto, dal suo delegato). A questo punto, dopo il bacio dell’altare, riceveva in consegna la chiave del Tabernacolo dal vescovo, il quale, dopo che il parroco si era seduto nella sede principale del coro, procedeva a presentargli i vasi sacri, gli Olii santi, il confessionale e il battistero. Laddove possibile, veniva presentato anche il campanile e il nuovo parroco procedeva a dare un tocco di campana. Seguiva poi l’omelia e, infine, poteva iniziare la Santa Messa, al termine della quale, in sagrestia, venivano presentati al parroco i registri e gli archivi ufficiali. Per ultimo, veniva apposta la firma all’atto di immissione del parroco, che sanciva la presa di possesso.[2]
Il rito attuale è rimasto a larghe linee il medesimo; il cambiamento principale, tipico del novus ordo, è, come prevedibile, l’inserimento dei momenti caratteristici di questa liturgia durante la Messa, subito dopo l’introduzione oppure al termine dell’omelia. Altro elemento aggiunto è il rinnovamento delle promesse presbiterali da parte del parroco, nonché l’introduzione di didascalie esplicative, anche piuttosto suggestive, durante la presentazione degli oggetti e dei luoghi sacri. In alcune circostanze viene anche cantato il Veni, Creator Spiritus. [3]
Non sarà sfuggito al lettore come le indicazioni riguardanti il rito di ingresso di un nuovo parroco, presenti sia nel Benedizionale che nel Ceremoniale Episcoporum, siano piuttosto generiche: ciò è dovuto principalmente alla difficoltà di tracciare delle linee guida che siano applicabili nelle singole realtà locali. Molto spesso, infatti, cerimonie come l’ingresso di un parroco vengono adattate in base ad usi e consuetudini della comunità locale il che, di per sé, è sicuramente un aspetto positivo nel momento in cui si tende a valorizzare gli elementi preziosi presenti nelle tradizioni delle varie comunità cristiane, anche di quelle più piccole.
Al contrario, tuttavia, non si può non evidenziare anche un pericolo che una simile impostazione comporta: l’adozione di indicazioni generalizzate può aprire la porta a personalismi ed invenzioni liturgiche piuttosto fantasiose da parte di alcuni parroci con idee alquanto discutibili. L’introduzione di modifiche al rito dovrebbe infatti limitarsi alle consuetudini ben consolidate e non a elementi di dubbia attinenza con la circostanza nonché con la tradizione cattolica.
Da parte nostra, comunque, eleviamo suppliche al Cielo affinché il Signore ci doni santi sacerdoti che siano veramente pastori delle anime loro affidate!
- Codice di Diritto Canonico, Libro II, Parte II, can. 519
- Cfr. G. Borgonovo, Manuale di Liturgia Ambrosiana, Tipografia Arcivescovile dell’Addolorata, Varese 1953, pp. 466-467
- Cfr. Rituale Romano, Benedizionale, Appendice II, cap. 2