Non è una moda recente, ma nemmeno troppo radicata nel tempo, quella del gran parlare mediatico e educativo attorno ai concetti di umiltà e povertà, che traviati nel loro significato, vengono erroneamente confusi e sovrapposti fra loro. La tendenza più manifesta è quella di proporre false idee di esaltazione di modestia, che in realtà celano le sembianze di una miseria trasversale, tangente tanto la materia quanto lo spirito.
Purtroppo la Chiesa negli ultimi decenni, e ancor più nei recentissimi anni, pare aver anch’essa contratto questo “morbo”, proponendo un’immagine di se stessa completamente spogliata su ogni fronte, al punto che ci si domanda se sia rimasto un solo pilastro di ciò che un tempo era un solenne Tempio di Dio e oggi pare un confuso “garage” eterodosso. Gli esempi a tal proposito sono numerosi, come liturgie trasandate, musica sacra da sagra di paese, paramenti e oggettistica che sembrano essere usciti dalla capanna di qualche sciamano delle tribù amazzoniche, ma soprattutto, una totale e sciente destrutturazione dell’immagine pontificia, della sua autorità e dei suoi valori.
La Santa Sede non è che l’ombra di ciò che fu un tempo, anche nei suoi valori. «Sono cambiati i tempi», si mormora mollemente, oppure «C’è stato un Concilio» viene ragliato qui e là fra i corridoi di seminari semi-deserti, videoconferenze online di sofistici vescovi in clergyman e amboni in plexiglass. Si è arrivati alla presunzione, anzi alla superbia, di poter giudicare la millenaria storia della Chiesa proponendo una cesura rispetto ad essa, come se quell’istituzione fondata da Cristo e sorretta per secoli dal sacrificio di santi e beati e dalla loro totale abnegazione fosse qualcosa che non ci riguarda più, un reperto archeologico scomodo e scarsamente politically correct. In questo c’è dell’assurdo tanto nell’approccio al rito, alla teologia, al sacro (che viene desacralizzato in modo inquietante) quanto nei valori stessi, che sembrano mutare di significato. Fra di essi in particolare la povertà, di cui un tempo ci si guardava molto bene dal creare confusione tra le sue pluralità di accezioni. La povertà che la Chiesa propugnava era primariamente quella delle beatitudini: «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3), «Beati i poveri» (Lc 6,20), i quali erano non solo coloro che si trovavano privi di mezzi di sussistenza economica, ma anche coloro che si rimettevano completamente alla volontà di Dio, riconoscendo in Lui l’unica potestà e l’ultimo fautore delle sorti umane e dei loro beni (anche monetari!).
La povertà non è mai salvifica perché è relegata meramente alla dimensione materiale. Certo è che abbiamo l’esempio di Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31), che vede la salvezza del primo e la condanna del secondo. Questo episodio però non rappresenta una disapprovazione verso l’entità patrimoniale dell’uomo ricco e un osanna alla miseria del povero, non propone scardinamenti sociali di matrice socialista o marxista, non ci sono spinte rivoluzionarie o all’espoliazione del solenne, del sapiente e del bello. È piuttosto la sopportazione del patimento, che insieme alla mancata carità, sono il vero punto cardine della parabola. Poiché senza ricchezza non potrebbe esserci altro che povertà, si può dedurre che il socialismo, tradotto nella pratica, non è altro che questo: un’impropria ripartizione dei redditi e un ingiusto sconfinamento del concetto di povertà in un mondo socialmente scardinato e piatto.
La povertà di spirito propugnata da Cristo non è mai povertà di pensiero, di contenuti, di conoscenza, sebbene alcuni pensatori e teologi sembrino quasi convergere verso tale dimensione in quanto lesiva di una “strampalata” forma di umiltà da loro concepita e che può indurre alla superbia. Se si nota, coloro che si fanno mediaticamente “gran gonfalonieri” di povertà (nel senso attuale del termine), un calderone estremamente confusionario, sono i medesimi la cui mente non spicca per finezza spirituale o erudizione. Mancano di quella sensibilità per comprendere che l’investimento nell’arte, nella letteratura, nell’acculturamento e nelle plurime forme del mecenatismo, soprattutto se vanno a lode e gloria del Signore, non sono affatto antitetiche rispetto all’elemosina per i meno abbienti. Ci sono molte forme di beneficenza, nel senso etimologico proprio di bene-fàcere, ovvero fare del bene, ed è a questo che la Chiesa è sempre stata chiamata.
Il poverello di Assisi, nella sua povertà assoluta, ribadiva che questa si fermava ai piedi dell’altare. Ciò per sottolineare come nessuna spesa era eccessiva quando era in offerta e a gloria di Dio, perché ben memore delle parole di Gesù: «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). E quando una spesa è offerta per la Gloria di Dio? Tutte le volte che si opera esaltando il Suo nome e la Sua volontà, nella solennità della liturgia, dell’arte sacra, nei paramenti, nell’educazione cattolica e altresì nell’immagine della Chiesa e dell’istituzione petrina, che non dovrebbe essere minacciata dalla contemporaneità. Non c’è peggior mondanità di quella pauperisticamente dissimulata.
Ma oggi? In ossequio alla povertà si fanno, ad esempio, sparire candelieri solenni dagli altari anzi, pensandoci bene si fanno sparire gli altari stessi, sostituendoli con tavolini, cubi di legno, blocchi di pietra e altre oscenità paleolitiche simili. Ciò è fatto in linea allo “spirito del Concilio”, giustificando in tal modo l’esecrabile ripudio dello splendore divino che in passato con tanta alacrità si era edificato, non per sostituirlo con qualcosa di migliore, bensì con qualcosa di evidentemente e consapevolmente peggiore, con l’intento di trasmettere un concetto di povertà maggiore comune nell’immaginario collettivo. D’altronde, compiere il divin sacrificio su un blocco di cemento armato con due portacandele antropomorfi di coccio trasmette un maggior senso di povertà rispetto a una elevazione su un altare barocco dove un figurativo trionfo angelico accompagna la vista e suscita il pathos necessario alla contrizione dell’uomo. Questo leitmotiv diffuso non si sottrae nemmeno in Vaticano. È oramai prassi consolidata assistere ad una crescente decadenza ivi presente, in ossequio a una fittizia povertà che in realtà è puro pauperismo. Di quale povertà si parli poi ci verrebbe da domandare loro, giacché le antiche e solenni pianete papali (a costo zero nell’uso) giacciono nelle sacrestie in attesa speranzosa di tempi migliori mentre nuovi costosi parati solo apparentemente poveri nella foggia e nel simbolismo, vengono acquistati e utilizzati per funzioni che nemmeno lontanamente ricordano quelle di Pio XII, quasi si parlasse di due religioni differenti. L’immaginario comune, studiato, proposto e foraggiato dalle attuali alte schiere vaticane, si orienta dunque verso un’immagine di cesura nei confronti del passato, volendo proporsi come umile, povero, pio, totalmente dedito a una “Chiesa degli ultimi”, con un atteggiamento che non puzzi di solennità, di autorità, di simbolismo, men che meno di sacro. Ci si vergogna quasi della ricchezza della Chiesa di ieri, totalmente ignari che una Chiesa povera non serve a nessuno ed è priva di qualsivoglia autorità, soltanto una Chiesa ricca ha le risorse per poter aiutare i più indigenti, tanto economicamente quanto spiritualmente. E per fare ciò la si spoglia integralmente di tutto, e si vende l’idea che oggi più che un tempo si pensi agli ultimi mentre i papi del passato erano dediti a una vita di lussi, di smancerie e di protocolli di corte che poco si confanno alle idee postconciliari.
Una delle condanne moderniste alla tradizione cattolica e ai suoi esponenti riguarda proprio il concetto di povertà. Solamente i figli del progressismo sessantottino, amici allegri degli incontri eterodossi di Assisi, degli oratori dove Gesù latita e delle preghiere di Taizé, si sentono veramente misericordiosi e coerenti con gli ideali evangelici, poiché associano alla povertà apparente dei loro abiti (ricordiamo tuttavia come essi indugino nell’indossare la talare, simbolo per eccellenza dell’umiltà sacerdotale e attualmente osteggiata persino presso la Santa Sede) la povertà delle beatitudini. E lì si fermano, non vanno oltre, ma anzi condannano chi anziché vestire casuline arcobaleno in poliestere con qualche spiga di grano cucita qua e là opta, sceglie di recuperare le pianete dei suoi predecessori, solenni, serie, esprimenti pienamente la dignità sacerdotale. Li si addita di superbia, vanità, mancanza di povertà, colpevoli di avere ancora un senso del sacro e del simbolo nella loro integrale solennità. L’odio verso la tradizione è sostanzialmente l’odio verso il sacro.
Una testimonianza dell’accezione sana della povertà papale dei pontefici del passato ci arriva da Filippo Crispolti, cronista di San Pio X, il papa attualmente vituperato per essere stato il più grande difensore della tradizione e dunque di tutto quel presunto palcoscenico di mancata sensibilità nei confronti degli ultimi e delle “periferie” che tale orientamento porterebbe con sè. Leggendo i ricordi personali del Crispolti, si trova una bella stoccata alle bisunte “ideologie di povertà 2.0” che oggi vanno creando falsi miti del passato. Al capitolo IX dedicato al pontefice di Riese viene definita così la condizione di povertà sostanziale dell’uomo Giuseppe Sarto in rapporto alla magnificenza dell’istituzione papale di Pio X:
Siano per sempre benedette le sorelle di lui, che accompagnatolo lungo tutti i gradi della sua ascensione se lo videro portar via da Venezia, ed egli non volle orbarle di sé, ma chiamatele in prossimità del Vaticano le ebbe consolatrici del suo calvario.
[…] in Pio X una spiccò, che per la rara altezza a cui giunse divenne un suo carattere distintivo: l’amore della povertà.Ma non sembri temerario il dire che il suo affetto verso tali sorelle [le sorelle del papa che aveva chiamato a vivere con lui per assistenza, ndr] — le quali gli rappresentavano tutti i suoi — fu la più palpabile testimonianza di questo amore. Certo, sotto forma di povertà in spirito nel senso del Vangelo, esso poteva durare e durò, anche quando la povertà materiale in cui era nato e cresciuto gli fu tolta dal salire di grado in grado fino a quello «oltre cui quaggiù non si può ire». Ma il decoro esterno e finalmente regale che una simile ascensione comanda, lascia di rado vedere agli occhi mortali chi cerca un tal decoro e chi lo subisce, chi ne gode e chi ne soffre, chi vi porta l’animo francescano e chi il compiacimento dell’inevitabile ricchezza.
La stessa caritatevole beneficenza che si eserciti di lassù, non potendo e non dovendo diminuire la dignità della condizione, né quindi in vista far impoverire, ha più gli aspetti della munificenza che del sacrifizio. Avrebbe ben potuto Giuseppe Sarto far da Papa la limosina colla stessa intima carità con cui da cappellano e dà parroco – tutti l’hanno risaputo – non avendo più un soldo da dare ai poveri, li faceva entrare di nascosto in cucina, e distribuiva loro quel che coceva in pentola per sé; l’avrebbe potuto bensì, ma la gente non avrebbe capito l’identità spirituale della vecchia e della nuova carità, perché egli non aveva più modo oramai di mettere a rischio il suo pranzo.
Pio X […] ebbe, oltre il mecenatismo tradizionale nei papi, il gusto di tutte le arti che potessero abbellirla. Sotto di lui fu più decorosamente collocata la pinacoteca; rifatto e reso magnifico l’appartamento del primo piano destinato al segretario di Stato; ampliato e decorato il grande appartamento dei ricevimenti; mutate e rese più eleganti le divise dei corpi militari recenti; riportate alla foggia storica quelle dei corpi militari antichi; rimessi in onore alcuni ordini cavallereschi trasandati. Nel palazzo il popolano di Riese fu il più splendido fra i pontefici che l’avevano ultimamente preceduto.
E volle, al terzo piano, un appartamento privato per lui ed i successori. Pio IX e Leone s’eran riservati qualche stanza soltanto, fra quelle di parata. E non ebbero neppure una camera da pranzo. Leone era servito sopra un semplice vassoio in camera da letto. O perché un Papa non doveva avere un rifugio suo, lontano dagli occhi della Corte, ove lavorare e vivere in libertà? Ma insomma anche questi comodi elementari, non potevano avere, perché nuovi, gli aspetti dell’amata povertà.
Dal suo contegno verso la famiglia fu invece rivendicata agli occhi di tutti l’intimità perenne dell’animo suo; la distinzione che egli faceva tra la propria persona e il proprio grado; la passione di restare sempre fondamentalmente povero. (Crispolti, F. 1939)
Questo frammento non può dunque che invitare a una doppia riflessione. Da un lato smentire certe posizioni dicotomiche fra immagine papale denudata di ogni “ricchezza simbolica” e autenticità del messaggio evangelico di povertà, e dall’altra smontare tutti i falsi miti sul tradizionalismo cattolico e sull’opulenza incurante dei suoi esponenti. Per questo si è invitati a riflettere sulla condizione della Chiesa contemporanea, sullo smantellamento sull’opera materiale e spirituale, culturale e sacrale, e domandarsi: siamo davvero disposti a collaborare a questa nuova ideologia? Siamo davvero così stolti da credere che spogliarsi della materia, e dei simboli ad essa annessi, faccia dell’istituto petrino un qualcosa di più autentico? Oppure lo si priva, come la realtà ormai evidenzia, della sua autorità, della sua coerenza e di conseguenza della capacità di fare maggiormente del bene? Il Papa è servus servorum, ma proprio per questo servizio non può divenire miserrimus miserorum.
Riferimenti bibliografici
- Crispolti F. , Pio XI – Leone XIII – Pio X – Benedetto XV – Pio XI. Ricordi Personali, Garzanti, Milano 1939.
- Lc 16,19-31.
- Lc 6,20.
- Mc 14,7.
- Mc 14,7.
- Mt 5,3.