di Luisella Scrosati – lanuovabq.it
L’episodio legato al parroco di Santa Maria della Carità di Bologna, don Davide Baraldi, raccontato da La Nuova Bussola, merita un approfondimento. Ricordiamo brevemente il cuore della questione: il parroco, non potendo celebrare le SS. Messe domenicali a causa di un’influenza aveva deciso di non cercare un sacerdote che lo sostituisse, ma di incaricare il diacono per la celebrazione di una liturgia della Parola.
A prima vista, sembra che il can. 1248 § 2 del Codice di Diritto Canonico giustifichi la decisione del parroco: «Se per la mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica, si raccomanda vivamente che i fedeli prendano parte alla liturgia della Parola, se ve n’è qualcuna nella chiesa parrocchiale o in un altro luogo sacro, celebrata secondo le disposizioni del Vescovo diocesano, oppure attendano per un congruo tempo alla preghiera personalmente o in famiglia o, secondo l’opportunità, in gruppi di famiglie».
Anzi, sembra persino che don Baraldi abbia fatto qualcosa di lodevole, corrispondendo alla viva raccomandazione presente nel canone citato. Il punto è però che il canone si riferisce a circostanze in cui sia impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica, ossia a quelle situazioni in cui non è ragionevolmente possibile recarsi in una Chiesa in cui vengano celebrate SS. Messe legittime, a causa, per esempio, di una distanza tale da rendere non fattibile il viaggio (prudentemente si indica un viaggio di oltre un’ora).
Non si tratta di una personale interpretazione del canone da parte di chi scrive, ma di quella ufficiale dell’allora Congregazione per il Culto Divino. Il 2 giugno 1988, il Cardinale Prefetto, S. Em. Paul Augustin Mayer, firmava il Direttorio per le celebrazioni domenicali in assenza di presbitero (Notitiæ 263, giugno 1988, 379-392), approvato da Giovanni Paolo II e tutt’ora vigente, nel quale si affermava anzitutto che è di competenza del Vescovo «stabilire se nella propria diocesi debbano aversi regolarmente riunioni domenicali senza la celebrazione dell’Eucaristia» (n. 24). Non può dunque essere un’iniziativa del parroco.
Il Vescovo poi è tenuto ad osservare dei criteri oggettivi, che manifestino la situazione straordinaria di liturgie di questo tipo e non la loro ordinarietà: «prima che il vescovo stabilisca che si facciano riunioni domenicali senza la celebrazione dell’Eucaristia, (…) devono essere esaminate la possibilità di fare ricorso ai presbiteri, anche religiosi, non addetti direttamente alla cura delle anime, e la frequenza alle Messe celebrate nelle diverse chiese e parrocchie» (n. 25). Due principi: cercare sacerdoti che celebrino, recarsi nelle chiese dove la Messa viene celebrata.
Ora, don Baraldi sembra che nemmeno abbia provato a cercare un sacerdote che lo sostituisse per assicurare almeno una Messa, fosse anche quella prefestiva. Almeno, lo si deduce dal criterio che egli ha confidato a Il Resto del Carlino: «Credo sia anche più significativo che un ministro della stessa comunità celebri la liturgia festiva, rispetto a un prete magari sconosciuto che non conosce lo stile della comunità». Lo «stile della comunità» è qualcosa di decisamente subordinato al principio cardine che si debba «mantenere la preminenza della celebrazione eucaristica su tutte le altre azioni pastorali» (n. 25). Anche perché la comunità cristiana è generata e alimentata dal sacrificio eucaristico, non dagli “stili” propri. Don Baraldi pertanto non aveva la semplice facoltà, ma il preciso dovere di cercare un sacerdote che lo sostituisse per assicurare la Messa domenicale ai suoi parrocchiani. Così insegna San Giovanni Paolo II: «dal momento che per i fedeli partecipare alla Messa è un obbligo, a meno che non abbiano un impedimento grave, ai Pastori s’impone il corrispettivo dovere di offrire a tutti l’effettiva possibilità di soddisfare al precetto» (Dies Domini, 49).
Non solo. I parrocchiani di Santa Maria della Carità avevano la possibilità di frequentare altre Messe nelle vicinanze, dal momento che la loro chiesa parrocchiale dista appena un chilometro dalla Cattedrale San Pietro di Bologna, che assicura tre celebrazioni domenicali e una prefestiva. Muovendosi con i mezzi, i fedeli avrebbero potuto raggiungere facilmente anche altre chiese e basiliche in città. È preciso dovere del parroco spiegare che, a quanti non sono inibiti da gravi ragioni, è fatto obbligo di soddisfare il precetto domenicale recandosi altrove, quando non è possibile farlo nella propria parrocchia.
Problema nel problema: la liturgia della Parola non soddisfa il precetto domenicale. Sempre la Congregazione per il Culto Divino aveva fatto conoscere un importante estratto di una risposta del 3 febbraio 1987, data ad un vescovo che domandava appunto delucidazioni sulle celebrazioni domenicali in assenza del sacerdote. In questa risposta si spiegava il senso di quel « si raccomanda vivamente» (valde commendatur) del can. 1248, citato sopra: «ciò significa che nelle comunità in cui manca il sacerdote o nelle quali non è possibile per altra grave causa partecipare all’Eucaristia, i fedeli non sono tenuti al precetto né lo assolvono partecipando alla celebrazione della Parola di Dio, né sono obbligati a partecipare a tale celebrazione» (Notitiæ 248, marzo 1987, 169).
Queste celebrazioni non eucaristiche non permettono dunque di assolvere il precetto, sebbene contribuiscano «a mantenere il senso della domenica, etc», quando non è possibile fare altrimenti. E, in questo senso, sono raccomandate. Non devono pertanto essere pensate come un modo alternativo di soddisfare il precetto. Chi è impossibilitato ad andare alla Messa è già di per sé sollevato dall’adempierlo; chi invece non è impossibilitato, è tenuto a recarsi in un posto ragionevolmente vicino per adempierlo.
Don Baraldi sembra essere (almeno in parte) a conoscenza della cosa, dal momento che al quotidiano di Bologna diceva: «In Italia, che è un Paese ancora tradizionalista, il precetto ordinario è che la domenica si debba andare a messa. Ma anche all’interno della Cei su questo c’è dibattito e se n’è parlato anche nell’ultimo Sinodo». Dunque, sa che “in Italia” (e non solo) il precetto è questo, e di certo non compete a lui modificarlo: dunque, perché ha fatto in modo che i suoi parrocchiani non adempissero al precetto? Perché ha indotto i suoi parrocchiani a compiere un peccato grave (cf. CCC 2181)? Il dibattito nella CEI o durante il Sinodo dispensa forse da seguire il precetto?
Data la totale confusione in cui siamo, ricapitoliamo la normativa per il precetto festivo della Messa (tralasciando l’osservanza del riposo festivo): il precetto si soddisfa solamente partecipando ad una Messa legittimamente celebrata, ossia dove il sacerdote è in piena comunione con la Chiesa, è regolarmente incardinato, e non ha aver ricevuto proibizioni dall’Ordinario. Dal precetto della Messa si è dispensati per una causa seria, come la malattia, il dovere di prendersi cura di malati o bambini quando sia impossibile trovare un temporaneo sostituto, il fatto di trovarsi per necessità in un luogo dove non è possibile raggiungere in un tempo ragionevole una chiesa cattolica. Oppure è il parroco a poter dispensare il fedele che glielo domandi «per una giusta causa» (can. 1245), o a commutare l’obbligo con altre opere, sempre conformemente alle disposizioni del proprio vescovo.
Dati i tempi, è bene ricordare che si soddisfa il precetto quando si è corporalmente presenti alla celebrazione eucaristica: seguire la Messa attraverso i mezzi di comunicazione sociale non permette di soddisfare il precetto. L’assistenza dev’essere poi devota, ossia con attenzione esterna, condizione indispensabile per quella interna.