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La predestinazione secondo il Dottore Angelico

Analizziamo un tema delicato della teologia secondo San Tommaso d'Aquino

Letteralmente la parola predestinazione indica l’ordinare una cosa a un determinato fine, ovvero stabilire in precedenza il fine per cui una cosa esiste. Nell’ambito della teologia la predestinazione è «la libera ed eterna decisione della volontà divina in riferimento alla meta ultima soprannaturale della creatura umana» (Mondin, 484). San Paolo nell’inno cristologico che apre la sua Lettera agli Efesini scrive: «In lui [in Cristo, ndr] ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1, 4-5). L’Apostolo presenta l’eterno piano salvifico di Dio Padre, che, prima ancora della creazione, ha predestinato gli uomini a diventare suoi figli adottivi in Cristo. Questo è il nucleo centrale della dottrina cattolica della predestinazione: per eterno volere di Dio siamo tutti predestinati alla vita soprannaturale ed eterna, cioè il fine ultimo dell’essere umano è la vita eterna. A partire da questo nucleo fondamentale sono state presentate diverse interpretazioni della dottrina, che, in ambito protestate e soprattutto calvinista, sono precipitate nell’abisso dell’eresia. In questo articolo presenteremo l’esposizione che fa San Tommaso d’Aquino della dottrina della predestinazione, la quale è stata approvata ufficialmente dalla Chiesa al Concilio di Trento e costituisce l’esposizione più sicura di questa verità di fede così delicata.

San Tommaso tratta della predestinazione nella q. 23 della Pars prima della Summa Theologiae, all’interno del trattato de Deo Uno. Nella q. 22 aveva esposto la dottrina della provvidenza, definendola come «l’ordinamento delle cose al loro fine preesiste[nte] nella mente divina» (STh I, q. 22, a. 1). Tutto ciò che esiste è sottoposto alla provvidenza di Dio e la provvidenza consiste nell’indirizzare le cose al loro fine. Se ogni cosa è indirizzata al suo fine, si deduce che l’uomo sia predestinato da Dio. Infatti, afferma San Tommaso, che il fine a cui tutte le cose sono ordinate da Dio è duplice: vi è un fine che è proporzionato agli esseri creati, i quali lo possono raggiungere con le proprie capacità naturali, e vi è un fine che supera i limiti delle capacità naturali. Questo secondo fine «è la vita eterna consistente nella visione di Dio, che trascende la natura di ogni essere creato» (STh I, q. 23, a. 1). Continuando nel suo ragionamento, il Dottore Angelico afferma che, se un fine non si può raggiungere tramite le proprie capacità naturali, è necessario l’intervento di qualcun altro, «come la freccia è lanciata verso il bersaglio dall’arciere» (ivi). La predestinazione consiste proprio in questo aiuto soprannaturale: poiché la creatura razionale, l’essere umano, non può con le sue sole forze raggiungere la vita eterna, cui, tuttavia, tende come suo fine ultimo, «è, strettamente parlando, condotta e come trasferita in essa da Dio. E il disegno di questo trasferimento preesiste in Dio, come in lui preesiste il piano che dispone tutti gli esseri verso il loro fine, piano che abbiamo detto essere la provvidenza» (ivi). 

Nell’art. 2 della q. 23 San Tommaso si chiede se la predestinazione risieda nei predestinati, cioè se è opera anche dei predestinati. La risposta è negativa: la predestinazione è opera esclusiva di Dio. Infatti, essa è parte della provvidenza, la quale si trova solo nella mente di Colui che provvede, mentre la sua esecuzione, il governo, si trova in senso passivo nelle cose governate. Allo stesso modo «la predestinazione è soltanto il disegno concepito dalla mente divina che mira a indirizzare alcuni alla salvezza eterna. L’esecuzione poi di questo disegno si trova al passivo nei predestinati, ma all’attivo si trova in Dio» (STh I, q.23, a. 2). A conferma di ciò San Tommaso cita San Paolo, il quale nella sua Lettera ai Romani scrive: «Quelli che egli [Dio, ndr] da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8, 29-30). 

Ci si chiede ancora se Dio nella sua predestinazione riprovi qualcuno (STh I, q. 23, a. 3). San Tommaso chiarisce cosa significhi riprovare: se la predestinazione è una parte della provvidenza e la provvidenza può permettere qualche deficienza nelle cose a essa sottoposte, «siccome gli uomini vengono indirizzati alla vita eterna dalla provvidenza divina, appartiene ad essa il permettere che alcuni manchino di raggiungere questo fine». Questo significa riprovare, cioè permettere che vi sia qualche mancanza in coloro che sono soggetti alla divina provvidenza. Essa è una parte della provvidenza. Infatti, San Tommaso afferma che «come la predestinazione è parte della provvidenza relativamente a coloro che da Dio vengono ordinati alla salvezza eterna; così la riprovazione è parte della divina provvidenza rispetto a coloro che non raggiungono tale fine» (ivi). Tutto ciò, tuttavia, non toglie agli uomini la libertà, né esclude alcuno dalla possibilità di salvarsi. Il predestinazionismo, il protestantesimo e il giansenismo accentuarono eccessivamente l’aspetto della predestinazione, dando un’immagine errata di Dio. Infatti, il Dottore Angelico specifica: «La riprovazione di Dio non riduce affatto le capacità dei reprobi. Quindi, quando si dice che i reprobi non possono ottenere la grazia, si deve intendere non di una impossibilità assoluta, ma di una impossibilità ipotetica. In questo stesso senso abbiamo detto sopra che è necessario che il predestinato si salvi, cioè di necessità ipotetica, la quale non toglie il libero arbitrio. Perciò, sebbene uno che è riprovato da Dio non possa ottenere la grazia, tuttavia dipende dal suo libero arbitrio che cada in questo o in quel peccato. Giustamente dunque gli viene imputato a colpa» (ivi). Nell’imperscrutabile volontà divina, Dio concede ad alcuni una grazia maggiore, mentre ne priva altri. Ciò, tuttavia, non predetermina la salvezza o la dannazione eterna di nessuno. Infatti, San Tommaso specifica che «la riprovazione non è causa di ciò che si verifica nella vita presente, cioè della colpa; ma solo causa dell’abbandono da parte di Dio» (ivi), perché la colpa deriva dal libero arbitrio della persona. È certo che chi è privo della grazia è più esposto alla caduta, ma ciò non inficia in nessun modo il libero arbitrio e la possibilità di non peccare.

Nell’articolo 4 della quaestio 23 San Tommaso si chiede, poi, se i predestinati siano eletti da Dio. San Paolo nel citato inno della Lettera agli Efesini afferma che Dio Padre ci ha scelti in Cristo. I predestinati, quindi, sono scelti, eletti da Dio. Infatti, il Dottore Angelico scrive che «la predestinazione concettualmente presuppone l’elezione, la quale presuppone l’amore». Infatti, la predestinazione è parte della provvidenza e «non si comanda la destinazione di un qualche cosa al fine, se non precede la volizione del fine» (STh I, q. 23, a. 4). La predestinazione di alcuni alla salvezza, quindi, presuppone che Dio voglia la loro salvezza. Tale volontà è l’elezione, perché Dio «vuole tale bene ad alcuni a preferenza di altri, giacchè alcuni li riprova, come sopra si è detto» (ivi).

Ci si chiede ancora se la previsione dei meriti sia la causa della predestinazione di una persona piuttosto che di un’altra (STh I, q. 23, a. 5). La risposta è necessariamente negativa. Infatti, San Paolo nella Lettera a Tito scrive: «Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (Tt 3,5). I Pelagiani e i Semipelagiani sostenevano che i meriti acquistati in vita sono causa degli effetti della predestinazione. Ciò spiegherebbe perché alcuni sono predestinati e altri sono riprovati. In realtà, San Tommaso spiega che l’effetto della predestinazione si può considerare in due modi: in particolare e in generale. La predestinazione particolare è quella alla gloria. Essa ha sostanzialmente la sua origine nella bontà di Dio, ma relativamente dipende anche dai meriti dell’uomo. La predestinazione generale (o universale), invece, è quella alla grazia, la quale ha di mira tutti gli uomini. Essa è totalmente originata dalla bontà e dalla misericordia di Dio, non potendo l’uomo in alcun modo concorrervi. Scrive, infatti, il Dottore Comune: «È impossibile che tutti gli effetti della predestinazione, considerati in blocco, abbiano una qualche causa da parte nostra; perché qualsiasi cosa è nell’uomo che lo porti verso la salvezza, è compresa totalmente sotto l’effetto della predestinazione, persino la preparazione alla grazia» (STh I, q. 23, a. 5).

Viene spontaneo chiedersi, quindi, perché Dio abbia predestinato l’uno piuttosto che l’altro? La risposta, secondo San Tommaso, viene direttamente dalla bontà di Dio. Egli ha creato tutte le cose per la sua bontà, «affinché la sua bontà fosse rappresentata in tutti gli esseri» (ivi). Utilizzando le categorie della filosofia aristotelico-tomista, il Dottore Angelico spiega che Dio è una sostanza semplice e di conseguenza racchiude in sé tutte le perfezioni. Così non è nell’universo, poiché esso è formato da sostanze composte, che non possono raggiungere la semplicità divina. Nell’universo, quindi, è necessario che ci siano vari gradi di cose, di cui alcune hanno un posto elevato e altre un posto infimo. Quindi, scrive San Tommaso, «perché si conservi questa multiforme varietà di gradi, Dio permette che avvengano alcuni mali, in modo che non siano impediti molti beni» (ivi). Lo stesso vale per il genere umano: «Dio volle che tra gli uomini alcuni, da lui predestinati, rappresentassero la sua bontà sotto l’aspetto della misericordia, e usò ad essi misericordia, e che altri, da lui riprovati, rappresentassero la sua bontà sotto l’aspetto della giustizia, e li sottopose alla punizione. Questo è il motivo per cui Dio elegge alcuni ed altri riprova» (ivi). A sostegno di questa tesi San Tommaso cita ancora una volta San Paolo, che nella Lettera ai Romani scrive: «Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria» (Rm 9, 22-23). La causa dell’elezione, tuttavia, non ha altra causa che la divina volontà, la quale è a noi imperscrutabile, come afferma Sant’Agostino: «Se non vuoi errare, non voler giudicare perché attiri a sé l’uno e non attiri l’altro» (In Io. 26,2). Né si può dire che Dio sia ingiusto se predestina alcuni e riprova altri. Tutto fa parte del sapiente progetto di Dio e nessuno, dice San Tommaso, si metterebbe a sindacare l’opera di un muratore che costruisce una casa, poiché «dipende esclusivamente dalla volontà del muratore che una data pietra sia in questa parte della parete e una seconda da un’altra parte: sebbene la regola dell’arte richieda che alcune pietre siano collocate qua ed altre là» (STh I, q. 23, a. 5). Per questo motivo, non si può considerare ingiusto Dio se «riserva cose disuguali ad esseri non disuguali», perché la predestinazione è data per grazia e non per debito, cioè perché è dovuto, e «quando si tratta di cose che si danno per grazia, ciascuno può dare a suo piacimento a chi vuole, più o meno, senza pregiudizio della giustizia, purché a nessuno sottragga quello che gli è dovuto» (ivi). 

Una giusta chiave di lettura per comprendere la dottrina della predestinazione ci viene offerta da p. Reginald Garrigou-Lagrange, che ne La sintesi tomistica, a conclusione dell’esposizione di questa verità di fede secondo il pensiero di San Tommaso scrive: «Per evitare a questo riguardo ogni deviazione, tanto nel senso del predestinazionismo, del protestantesimo e del giansenismo, quanto in quello del pelagianesimo e del semipelagianesimo, bisogna mantenere i due principi che si equilibrano: Dio non comanda mai l’impossibile e nessuno sarebbe migliore di un altro se non fosse più amato e più aiutato da Dio: “Quid habes quod non accepisti?”. Questi due principi equilibrandosi, ci permettono di presentire che l’infinta giustizia, l’infinita misericordia e la sovrana libertà si uniscono perfettamente fino a identificarsi, senza distruggersi, nell’eminenza della Deità, che ci rimane nascosta finché non avremo la visione beatifica. In questo chiaroscuro la grazia, essendo una partecipazione della Deità, conserva la tranquillità del giusto, mentre le ispirazioni dello Spirito Santo lo consolano, confermando in lui la speranza e rendendo il suo amore più puro, più disinteressato e più forte, così che nell’incertezza della salvezza si afferma sempre di più la certezza della speranza che è una “certezza di tendenza” verso la salvezza, di cui Dio è l’autore. Infatti, il motivo formale della speranza infusa non è il nostro sforzo, ma l’infinita misericordia ausiliatrice (Deus auxilians), che coronerà il nostro sforzo da quella suscitato» (Garrigou-Lagrange, 142).


Bibliografia

  • R. Garrigou-Lagrange, La sintesti tomistica, Fede e cultura, Verona 2017.
  • B. Mondin, «Predestinazione», in Id., Dizionario enciclopedico del pensiero di San Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna 2000, 484-487.Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae (nel testo STh)

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