Va a letto, senza dir nulla, ma l’indomani non regge più. Lo zio gli dà come “medicina”, quella di riprendere il lavoro, perché “se non lavori, non mangi”. Si trova con una terribile piaga a un piede, che presto andrà in cancrena. La piaga ha bisogno di continua pulizia e Nunzio si trascina fino alla grande fontana del paese per pulirsi, ma di lì viene presto cacciato come un cane rognoso, dalle donne che, venendo lì a lavare i panni, temono che inquini l’acqua. Trova allora una vena d’acqua a Riparossa, dove può provvedere a se stesso, impreziosendo il tempo lì trascorso con molti Rosari alla Madonna. A un certo punto fu ricoverato per tre mesi all’ospedale “San Salvatore” dell’Aquila, ma le cure sono impotenti. Ritornato all’officina in uno stato doloroso, non poté continuare nel lavoro, pertanto lo zio paterno Francesco Sulprizio, militare a Napoli, lo inviò a Napoli con l’aiuto del colonnello Felice Wochinger, che prese ad amarlo come un figlio e per suo interessamento Nunzio fu ricoverato, il 20 giugno 1832, all’Ospedale degli Incurabili. Per circa due anni, soggiorna tra l’ospedale di Napoli e le cure termali a Ischia, ottenendo qualche passeggero miglioramento. Lascia le stampelle e cammina solo con il bastone. Dall’11 aprile 1834, il colonnello per curarlo meglio, lo condusse con sé nel Maschio Angioino, allora adibito a caserma, mentre il male avanzava inesorabilmente. Presto però, all’iniziale miglioramento, segue l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche: in fondo si tratta di cancro alle ossa e non c’è cura che serva. Le sofferenze sono acutissime, tanto che i medici pensavano di amputargli la gamba; vi rinunciarono però data l’estrema debolezza del giovane. Morì il 5 maggio 1836, a soli 19 anni.