Una vera piaga che affligge la Chiesa è quella del pensiero antiliturgico. Ora, qualcuno potrebbe pensare che questo sia un problema secondario di fronte all’ateismo od alla corruzione dei costumi, ma cercheremo, invece, di spiegare perché questo sia un problema di primaria importanza.
Potrebbe essere -lo premetto- un problema dello scrivente nell’indagare le questioni riferendosi sempre al proprio ambito, ma ogni crisi che viene denunciata in altri campi ha sempre una controparte liturgica.
Parlare di antiliturgia, quindi, significa individuare una corrente di pensiero (senz’altro eretica) che non riguarda la scelta di un paramento di una foggia piuttosto che di un’altra tipologia, ma che costituisce una distruzione sistematica dell’impianto liturgico. Alcune analisi sono già state condotte su questo sito.
Le radici di questo pensiero sono più antiche di quanto si pensi; la teologia che vi sta dietro è ben chiara: la liturgia è un peso, un fardello da cui sgravarsi continuamente, il prima possibile, per dedicare tempo ad altro.
Sfrondare la liturgia significa agire lungo l’asse temporale, sottraendo tempo, e lungo l’orizzonte pratico, se così possiamo dire, ovverosia l’eliminazione fisica di paramenti o gesti.
Partiamo con un aneddoto medievale narrato dallo scrittore inglese Edward Ingram Watkin in Neglected Saints: si racconta che Sant’Ugo di Lincoln (1135 circa-1200) si trovasse un giorno con Ugo Nonant, vescovo di Coventry. I due dovevano essere ricevuti a pranzo dal re d’Inghilterra (il nostro autore non cita chi sia, ma incrociando i dati biografici dei due antistiti e considerando le testimonianze dei loro rapporti, possiamo supporre con ragionevolezza che si parli di Riccardo I). Il vescovo di Coventry, per non far attendere il sovrano, iniziò a leggere l’introito Os justi, mentre l’episcopo di Lincoln iniziò a cantarne le note, ricordando che il primo dovere di un pastore non è quello di curare i rapporti sociali, ma di occuparsi del divinum officium.
Un altro affondo del pensiero antiliturgico è quello dato dai nuovi istituti di perfezione nati durante il XVI secolo. Ordini come quello dei gesuiti e dei teatini nascono senza obbligo di coro, gettando invece le basi, come spiega il professor Angelo Bianchi (ordinario di Storia Moderna presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), della devotio moderna: nel corso dei secoli vedremo le chiese dei gesuiti svuotarsi di sacri ministri e di cori a favore di statue del Sacro Cuore, talvolta molto sdolcinate.
Un altro attacco che, forse, non ci aspetteremmo, è quello dato da San Pio X nel suo pontificato. Non ci concentriamo sulla riforma del Breviario (già analizzata qui), ma sul fatto che esso viene ridotto, in termini di tempo (riduzione del peso liturgico) introducendo però due pratiche non liturgiche quotidiane: la visita al Santissimo Sacramento e la recita del Rosario (canone 125 del Codex Iuris Canonici piano-benedettino). Si tratta senza dubbio di ottime occupazioni, peccato che tutto ciò che non è liturgico debba essere subordinato alla preghiera ufficiale della Chiesa.
Arriviamo agli anni ’50: qui i problemi affliggono sia la Settimana Santa che l’ordinarietà. Per quanto riguarda la Settimana Santa assistiamo alla distruzione di riti plurisecolari per opera di Monsignor Annibale Bugnini sotto, ahinoi, il pontificato di Pio XII. Non ci concentriamo tanto sul fatto che queste riforme pacelliane siano direttamente collegate a quelle postconciliari, ma sul fatto che già negli anni ’50 (quindi, cari “tradizionalisti”, siamo prima del Vaticano II!) si sfrondino senza pietà riti antichissimi, sconvolgendo le mentalità liturgiche antiche che stavano dietro alle celebrazioni; tra tutte, la funzione più squartata è forse la Messa dei Presantificati, privata addirittura di questo nome. Il motivo? Una liturgia così antica non corrispondeva agli orientamenti liturgici e pastorali del tempo, e quindi andava modificata.
A livello di ordinarietà, invece, si introducono già molte innovazioni: letture in volgare, altari ad populum, e si diffonde la pratica che il dottor Peter Kwasnieski chiama il “fourhymns sandwich”: definizione simpatica e azzeccata per una Messa letta (anche quando ci sarebbe disponibilità di ministri e coro) con mottetti, all’ingresso, all’offertorio, alla comunione e alla conclusione. Il canto dell’ordinario e del proprio vanno in soffitta per le solite “ragioni pastorali”: il tempo va impiegato in altro modo, non nella liturgia!
L’ultima ferita inferta dagli antiliturgisti è sicuramente quella delle riforme montiniane: con la scusa di riportare i riti alla “nobile semplicità”, e di “eliminare inutili ripetizioni”, si giunge ad una Messa ed ad un Ufficio (che non a caso prende il nome di Liturgia delle Ore: come si potrebbe chiamare officium ciò che non porta via nemmeno un’ora della giornata?) stringati, ridotti all’osso. Una liturgia semplice o scarna? Prendiamo, ad esempio, la riduzione pratica dei paramenti: in quale modo non indossare il manipolo, omettere l’amitto ed il cingolo renderebbero i Sacri Misteri più comprensibili? Ne quidemverbum.
In moltissime parrocchie contemporanee la situazione è liturgicamente deprimente: tutte le Messe sono sempre lette, non vi è mai il canto dell’ordinario (e ancor meno del proprio), e le ore liturgiche non sono celebrate. Lo stesso clero è spesso poco attento alla liturgia, omettendo appena possibile, più o meno lecitamente, parole, gesti e paramenti. I variegati tentavi di salvaguardia delle tradizioni liturgiche sono osteggiati come pericolosi ritorni al “passato preconciliare”.
Nondimeno, non si beino le parrocchie “tradizionali”: in molte realtà sedicenti tali non si brilla per custodia della Sacra Liturgia, anzi: ovviamente la condanna non va a quei gruppi appena formati o con poche risorse umane, ma a chi potrebbe, senza problemi, offrire ogni domenica una funzione cantata e il canto di Vespri e/o Lodi e, per pigrizia, non lo fa, offrendo una più easy and friendly Messa letta: dal fast food alla fast liturgy? Il fatto che poi questa celebrazione sia in latino e in rito antico (se poi si usa il Messale del ’62 non è poi così antico, tra parentesi) non toglie il principio per cui la liturgia viene messa in secondo piano, giungendo magari a quelle celebrazioni, rinvenibili su YouTube, di messe lette di un’ora dove però la metà è occupata dalla roboante predica contro i modernisti (addirittura con termini scurrili).
Giungiamo alla conclusione: abbiamo capito (almeno, spero) che la salvaguardia della liturgia da questi attacchi è un’opera necessaria alla Chiesa, per il culto reso alla gloria di Dio e per la santificazione del popolo cristiano. Ridurre la liturgia (che ha i suoi tempi, certamente non infiniti) a favore di altro è sempre un danno: che poi in questo tempo si facciano cose migliori (come recitare il Rosario) o peggiori (blaterare sciocchezze incomprensibili sulla pastorale) è in realtà la stessa cosa, lo stesso principio antiliturgico, sopprimendo o riducendo la voce incessante della sposa mistica di Cristo Signore.
Mi permetto di chiudere con degli inviti: custodire la liturgia significa studiarla, conoscerla (questo blog vuole esserne uno strumento), ma soprattutto viverla. Recitare, o meglio cantare, ogni giorno l’Ufficio, e, per chi ne ha possibilità, prodigarsi nell’organizzazione di celebrazioni, occuparsi di tutto (dai paramenti ai ceri, dal servizio al canto) con lo giusto sguardo: non quello di un falciatore che elimina tutto ciò che non comprende o non ritiene adatto, e nemmeno quello di un padrone, ma quello di un servitore, di un custode di un’eredità antica da custodire gelosamente.
Fonte: http://traditiomarciana.blogspot.com/2020/12/il-pensiero-antiliturgico.html