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Inculturati tu

L’inculturazione, liturgica e non solo, è una delle questioni di più stretta attualità. Ostentata come bene supremo, presenta però notevoli criticità.

Ai nostri giorni, quella dell’“integrazione culturale” sembra essere diventata una moda. Anzi, non tanto una moda, quanto una vera e propria necessità, un bene supremo dal quale non si può prescindere.

Certamente, i fenomeni politici e sociali che caratterizzano la civiltà odierna hanno pesantemente influito affinché si stabilizzassero tendenze culturali in tal senso. È evidente che, col trasformarsi del mondo occidentale in una società sempre più aperta e multietnica, anche i concetti di identità e nazionalità hanno assunto sempre più un valore relativo. Nessun Paese occidentale, pur con le opportune differenze, può dirsi esente da questa “inculturazione”, in cui il “diverso” cerca di assorbire quelli che sono usi e costumi della maggioranza la quale, dal proprio canto, guarda molto spesso, se non con favore, quantomeno con interesse a quelle che sono le tradizioni altrui. Quale sia il giudizio da attribuire a tutto ciò non spetta a noi affermarlo, certamente sarebbe auspicabile però che l’ago della bilancia di questo trasferimento culturale rimanga stabilizzato nel mezzo, onde evitare da un lato la perdita dell’identità di chi si integra in una nuova cultura e dall’altro lo smarrimento delle proprie radici da parte di intere popolazioni che, molto spesso, ignorano la bellezza della propria storia e tradizione, o ancor peggio la rinnegano (la cosiddetta cancel culture).

Ciò detto, da parte nostra concentriamo l’attenzione sull’analisi del fenomeno introdotto in questo articolo nel momento in cui esso interessa la vita della Chiesa, sia negli aspetti liturgici, che teologici o filosofici o, ancora, pastorali. Infatti, fintantoché a risentirne sono aspetti della vita secolare (si pensi ad esempio al neo Primo Ministro britannico, hindu praticante alla guida di un Paese che conserva l’anglicanesimo come religione di Stato) possiamo anche rimanere più o meno indifferenti, mentre tali non possiamo restare di fronte a interventi, modifiche o innesti nella Sacra Liturgia.

Gli anni del pontificato di Papa Francesco ci hanno abituato a vedere, in ambito liturgico, non solo novità sostanziali rispetto agli anni di Benedetto, bensì sovente anche la comparsa di elementi tradizionali di alcune civiltà provenienti, per utilizzare le parole del Santo Padre, «dalla fine del mondo»; l’ormai arcinota pachamama, portata processionalmente durante il Sinodo per l’Amazzonia, è solo l’esempio più lampante che possiamo ricordare. Molto spesso, però, questi elementi non solo sono stati protagonisti di incontri e riti vari, ma sono perfino stati inseriti durante la Santa Messa; in occasione della prima domenica di Avvento del 2019 la Messa stessa è stata celebrata dal papa in rito zairese per la comunità del Congo. A onor del vero, è doveroso ricordare che già negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II eravamo soliti a questo tipo di sorprese. Proprio nella sua enciclica Ecclesia in Africa, il santo pontefice incoraggiava queste pratiche di inculturazione, pur ponendo chiari paletti su quali limiti non dovessero essere oltrepassati, ovvero la non compromissione di quanto fosse di diritto divino o del patrimonio e della disciplina della Chiesa.

La domanda, però, sorge proprio su detta questione: questi limiti sono rispettati oppure oggi vengono oltrepassati? Per rispondere, è auspicabile allargare lo sguardo sul fenomeno, in primo luogo analizzando la tradizione della Chiesa. Storicamente, la diversità sia di usi che di riti non è mai stata un male di per sé. Al contrario, laddove elementi culturali locali fossero ben radicati da tempo e utili all’edificazione dei fedeli sono sempre stati incoraggiati, così come la diversità dei riti liturgici. Al fine tuttavia di salvaguardare l’unità e manifestare l’universalità ecclesiale, san Pio V ravvisò la necessità di maggior uniformazione nella Chiesa e così i riti locali, se si eccettua l’ambrosiano, andarono col tempo scomparendo. Pertanto, potremmo affermare che la tendenza sia sempre stata quella di tutelare le differenze esistenti ma senza incoraggiarle e, se necessario, cercare di uniformarle.

In secondo luogo, poniamoci anche la domanda riguardo la funzionalità di inserire elementi culturali, ad esempio di tradizione africana, nella Sacra Liturgia. Esistono prove della correlazione tra semplificazione o indigenizzazione della liturgia e aumento dei fedeli? Assolutamente no ma, tutt’al più, potremmo sostenere il contrario. Del resto, il Concilio Vaticano II non ha fatto altro che porre questo identico dilemma per il mondo occidentale e così la Messa è stata semplificata e il latino eliminato per rendere il tutto più comprensibile; i numeri, però, hanno tristemente confermato che questo processo, seppur nelle migliori intenzioni, non solo non ha funzionato, bensì ha sortito l’effetto opposto.

Un’ulteriore argomento da prendere in considerazione riguarda una polemica più generale, non limitata al mondo ecclesiale ma che lo investe particolarmente, ovvero la credenza sempre più dominante che tutto quanto provenga dall’Europa, dal buio medioevo e dal mondo occidentale sia da demonizzare perché portatore di una concezione imperialista. Su questo tema, anche noi cattolici dovremmo impegnarci in una crociata che sia prima di tutto culturale. Purtroppo, spesso gli europei non si rendono conto di come simili teorie minino l’esistenza medesima della propria civiltà; gli americani su questo campo appaiono invece maggiormente consapevoli, a fronte tuttavia anche di maggior violenza nel dibattito pubblico e maggior estremismo da parte di sedicenti difensori dei diritti civili. Ad esempio, si pensi al recente viaggio del papa in Canada. Solitamente i viaggi papali sono descritti come viaggi apostolici, Pietro che conferma i propri fratelli nella fede. L’impressione che è derivata dal viaggio canadese, però, è stata totalmente diversa. Da parte vaticana si è cercato fin da subito di presentare il tema come un pellegrinaggio di penitenza per domandare il perdono delle popolazioni indigene, attorno alle quali nel Paese della Maple Leaf si è nell’ultimo anno sviluppata una pesantissima polemica per i presunti abusi subiti da parte di membri del clero cattolico durante i processi di inculturazione forzata cui le popolazioni native erano sottoposte fino allo scorso secolo. Ciò che però ha di più sorpreso è stato l’atteggiamento delle autorità canadesi, segnatamente del Primo Ministro, che hanno quasi preteso con un fare di superiorità morale le scuse da parte della Chiesa e si sono resi paladini dei diritti degli indigeni. Forse Trudeau non è stato informato del fatto che i famosi centri indigeni venivano gestiti per conto del governo e che non erano certo i sacerdoti a strappare con la forza i bambini alle proprie famiglie. Ad ogni modo, è interessante vedere come sia sempre la Chiesa cattolica il primo bersaglio di questo tipo di accuse, presenti sin dalle prime discussioni sui missionari.

Da parte loro, inoltre, i leader africani o sudamericani hanno mai forse sostenuto che, poiché simbolo di una cultura imperialista, fosse necessario abbattere il modello di stato importato dall’Europa e tornare all’organizzazione tribale oppure distruggere tutte le infrastrutture di origine europea o, perché no, ripudiare perfino le lingue non autoctone? E allora, di grazia, perché mai dovrebbe essere proprio la Sacra Liturgia a cercare venia e mescolarsi con le tradizioni locali? Perché dovrebbe essere il miglior aspetto derivante dalla colonizzazione europea, ovvero la diffusione del messaggio di Cristo, a pagare il prezzo di altri? A parte che è, a dir poco, ridicolo che queste mescolanze vengano messe in atto anche da noi, perché il significato che per un gruppo di fedeli etiopi può assumere una danza sacra inserita nella liturgia per noi europei non sarebbe altro che una ridicolizzazione e una perdita della sacralità del rito medesimo. Ma siamo certi che le popolazioni africane o sudamericane domandino che le loro tradizioni (pagane) vengano inserite nella Messa? Se i telegiornali ce le mostrassero, rimarremmo basiti nel vedere come anche nei luoghi più remoti e poveri del globo, i cattolici riservino un’incredibile e a noi sconosciuta riverenza verso l’Eucarestia e la S. Vergine. 

I sostenitori dell’inculturazione ritengono, però, che favorire un processo di mescolanza con gli elementi non cristiani non sia altro che ripetere quanto i primi cristiani misero in atto nel far propri aspetti del mondo pagano. Questa idea si contrasta facilmente ricordando di come sia naturale che, in una religione nuova e ristretta, siano del tutto assenti forme di regolamenti o rituali o testi scritti su come normare la liturgia, ed è logico che si attinga quindi anche alla cultura dominante al fine di cristianizzarne gli aspetti maggiormente degni di valore. Tutto questo processo, però, è servito per determinare chiaramente quale fosse la sfera del sacro e poterla stabilizzare, ma in nessuna epoca successiva si è mai ravvisata la necessità di dover adeguare la liturgia al mondo contemporaneo, tanto che la forma che la Messa aveva avuto da sempre venne riaffermata proprio durante gli anni del Concilio di Trento, quando ormai il latino non era più lingua parlata o i paramenti liturgici non erano certamente derivanti dal modo di vestire in uso. Ciò che i fautori di questa tesi non riescono a comprendere è che proprio in quegli anni ci fu, invece, chi favorì l’inculturazione col mondo, ovvero i protestanti. Non deve stupirci che oggi, nella galassia protestante, i luterani “originali” siano minoritari, sostituiti da battisti, pentecostali e compagnia bella. Il protestantesimo nasce infatti come adattamento della realtà ecclesiale al mondo secolare e, pertanto, le forme luterane del 1517 non sono più adeguate per rispondere alle necessità di oggi. Noi cattolici, quindi, invece che rincorrere questi esempi, dovremmo limitarci ad affermare quello che la Chiesa ha sempre offerto da duemila anni a questa parte, soprattutto nella liturgia.

Infine, rigettiamo con forza anche l’accusa che uniformazione liturgica significhi perdita della propria identità. Una prova della falsità di questa argomentazione è il caso dell’Irlanda. Gli irlandesi sono un popolo che non è mai stato romanizzato e che, quindi, avrebbe avuto il diritto di rimarcare, secondo questo ragionamento, la propria componente gaelica anche nella liturgia. Ma è stato forse il latino a soppiantare la lingua irlandese? No, è stato l’inglese. È stata la liturgia romana ad indebolire la cultura gaelica? No, è stata l’anglicizzazione forzata. Per assurdo, il cattolicesimo è diventato invece uno degli elementi di opposizione alla dominazione britannica. Non si capisce pertanto perché analogo ragionamento non debba valere per le popolazioni africane o sudamericane.

In conclusione, si rende necessaria una precisazione. Tutto quanto esposto in questo articolo vale anche se letto in senso contrario, ovvero come ci si oppone all’inculturazione della liturgia latina, così ci si oppone alla latinizzazione delle liturgie orientali o siriache o etiopiche che siano. Ogni liturgia ha sviluppato delle forme che i rispettivi fedeli hanno sempre riconosciuto e continueranno a riconoscere come sacre e sarebbe pertanto auspicabile che cessino questi fenomeni di forzata inculturazione i quali, oltretutto, sono sovente osteggiati dai diretti interessati.

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