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Libera nos a Malo

Tempo di Avvento
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La recente proposta di modifica della preghiera del Pater noster, la preghiera insegnata da Cristo agli apostoli, ha infuocato il dibattito dialettico concernente i principi ontologico-formali e propriamente semantici della richiesta stessa. Tale preghiera presenta infatti una sezione in cui si domanda alla prima Persona della SS.Trinità di non indurre in tentazione il peccatore. Nella forma latina, si recita: “et ne nos inducas”, tradotto letteralmente con “e non indurre noi”. La recente proposta di modifica, da non ‘indurre’ a  non ‘abbandonare’, ancora prima di accendere un dibattito agguerrito, estrae ad personam un grande interrogativo: perché modificare una preghiera che per diciannove secoli ha avuto una forma espressiva, lessicale, che é stata anche oggetto di tanti dibattiti interni, e che é accuratamente sostenuta da dimostrazioni teologiche rigorosissime? Mi meraviglio che dei dottissimi padri, che ammiro e rispetto, abbiano perfino pensato ad una modifica cosí manifestamente erronea. Per dimostrarlo, utilizzerò testi canonicamente riconosciuti, appoggiandomi poi su considerazioni personali.

Il Catechismo del concilio di Trento, redatto sotto la guida di S.Pio V durante la Controriforma, dedica una intera regione del libro ad una trattazione rigorosa del Pater. L’atarassico termine inducas si connette a pereo, che significa perire, svanire: quando un ente è indotto in tentazione, significa che è condotto in essa, non però in condizione irreversibile. Rischia di cadere nel peccato, di perire cioè spiritualmente. Lo stato dell’anima, secondo la teologica cattolica, é infatti uno stato discreto: può assumere solo due configurazioni: stato di grazia, stato di peccato. Impossibile che i due convivano, ma da uno si passa all’altro in maniera continua.

L’induzione in tentazione può essere procurata “[…] quando, rimossi dal nostro stato, precipitiamo nel male, verso il quale qualcuno ci ha spinto con il tentarci[…]”(P. IV, Q.VI, N.413). Dio concede la tentazione, operata attivamente da un soggetto, o passivamente da un effetto secondario di un oggetto, per fortificare la virtù di un uomo. Un bene, infatti, può indurre un male. S.Tommaso d’Aquino, dottore tra i dottori della Chiesa, lo dimostra espressivamente nella Summa Theologiae, Q.49, A.1. L’aquinante opera una distinzione tra male indotto con una azione, e male indotto con un oggetto: a titolo di esempio del caso secondo, si può considerare il fuoco, che messo vicino a un libro può procurare la distruzione del secondo, senza volerne il male in origine. Il fuoco, infatti, consegue il suo bene, ardendo con potenza, perché ardere é il fine dell’ente chiamato fuoco; per il ramo teologico cattolico e tomista, il bene di un ente coincide con il suo fine, e ad esso l’ente risulterà sempre orientato. Perciò abbiamo un esempio di bene inducente un male (il buon libro che invece di essere letto, brucierà cancellando il suo prezioso contenuto).

Dio può permettere una induzione al peccato, sopratutto per forgiare un carattere o una virtù. 

Se un peccatore, invece, continua ad accumulare colpe su colpe, Dio può abbandonarlo, lasciando che esso possa addirittura perire, con le relative conseguenze. Ad affermarlo sono i dottori della Chiesa e vescovi S.Alfonso Maria de’ Liguori e S.Agostino d’Ippona. Il vescovo eretico Ario, dopo essere stato allontanato da Costantinopoli, stava per rientrare nella Città da trionfatore: quand’ecco che fu preso da un attacco che gli lacerò stomaco ed intestino, e morí sulla via dell’ingresso in città. L’arianesimo, eresia devastante tanto quando il protestantesimo e tutti i suoi rami derivati, ha procurato tuttavia tanti buoni frutti: uno tra questi è il consolidamento della dottrina sulla natura Teandrica della Chiesa e del Cristo. Oppure ha procurato la santità del vescovo di Bari, Nicola, che durante un concilio di dibattito tra cattolici ed ariani, si alzò e schiaffeggiò con fare ecumenico l’eretico, procurandosi la galera e il riso dei presenti vescovi, che erano divenuti quasi tutti ariani. L’abbandono di Dio é un principio molto robusto, perché é coerente con l’idea di Dio come giudice sommo e infallibile. La caduta di Lucifero fu causata dall’accumulo di peccati veniali, che indussero debolezza nella psiche e nell’anima diabolica, che venne meno alla adorazione propria della Trinità, cadendo cosi nel vizio capitale della superbia e nella bestemmia, culminanti nell’abbandono finale di Dio.

San Paolo, in Rom.1,26-28, afferma espressivamente che “[…]Dio li ha abbandonati alle loro infami passioni, ai loro reprobi sensi[…]”, riferendosi ai pagani. La tentazione non viene da Dio, tuttavia Egli la permette in una misura sempre proporzionata, per procurare un bene maggiore o/e la mortificazione dopo il misfatto compiuto. Ora, perché dovremmo gettarevia inducas per il relinquis? Dio non può abbandonare un figlio nella tentazione, perché la tentazione é il passo antecedente il commettere un peccato. Dire “abbandonare alla tentazione” è profondamente inesatto, perché riferito al soggetto sbagliato: “abbandonare al peccato” é altresì giusto, come abbiamo dimostrato sopra. Abbandonare in tentazione implica la chiusura alla possibilità della fortificazione e del bene, e non é questo ciò che Dio vuole, non lo ha mai valuto, non lo vorrà mai. Non per niente, abbiamo conservato questo inducas per quasi venti secoli: tutto ha un significato, seppur complesso. Speriamo perciò che lo Spirito Santo possa illuminare chi ha pensato di apportare questa modifica, affinché possano rivalutare questo giudizio e ritornare sui passi della vera teologica cattolica, infallibile e non secolarizzata, perché di origine metafisica, perciò non modificabile.

Ecclesia Dei

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