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Rito della Nivola: «Quella lentezza che ci fa apprezzare il segno»

Presiedendo i Vesperi primi nella Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, l’Arcivescovo, con l'antica e suggestiva cerimonia, ha portato sull’altare del Duomo la preziosa reliquia del Santo Chiodo.

di ChiesadiMilano.it

«Abbiamo bisogno di momenti in cui il tempo passa lentamente e che ci sia data la possibilità di stare, di sostare, di lasciar depositare pensieri, dolori, distrazioni, intuizioni, domande. Abbiamo bisogno di stare a lungo». È un elogio della lentezza quello che l’Arcivescovo tesse, durante i vesperi primi del triduo dell’Esaltazione della Santa Croce, per «consentire allo Spirito di imprimere nel nostro vivere lo stile di Gesù, nell’animo i sentimenti di Gesù, fino al compimento».

Come ogni anno, nei tre giorni più vicini alla Festa liturgica dell’Esaltazione, che ricorre il 14 settembre, il Santo Chiodo torna, appunto in questi Vesperi primi aperti dal Rito della luce, sull’altare maggiore del Duomo per la venerazione dei fedeli che, per l’occasione, gremiscono le navate. Il Santo Chiodo, la reliquia più preziosa della nostra Chiesa, simbolo della Passione attraverso la concretezza del chiodo della croce di Cristo, la cui presenza è attestata fin dal 1263 nella Basilica di Santa Tecla e, in Duomo, dal 1461; reliquia particolarmente cara a san Carlo, come a tutti i suoi successori, che stretta tra le mani dall’Arcivescovo, “scende” dalla sua consueta collocazione, posta a 42 metri di altezza sulla sommità della volta absidale, dove è segnalata da una luce rossa e dove verrà riposta lunedì, al termine del Triduo, nella “Messa Capitolare infra Vesperas”.

Momenti – questi – tra i più particolari e suggestivi dell’intero anno liturgico, anche per il mezzo con il quale l’Arcivescovo raggiunge il Santo chiodo, ridiscendendo con la reliquia inserita nella croce in legno dorato: la Nivola. Quella sorta di ascensore a forma di nuvola – “nivola”, in dialetto -, che qualcuno (specie nei secoli scorsi) attribuiva a Leonardo da Vinci, ma che, con molta più ragione, si deve ritenere dovuta ad architetti dell’entourage di San Carlo. Nivola – arricchita dalle pitture su tele di Paolo Camillo Landriani risalente, nella sua forma attuale, al 1624 e oggi azionata da un duplice argano meccanico, ma un tempo mossa a forza di braccia – che ascende dalla Cappella feriale della Cattedrale dove trovano posto, come tradizione, i Canonici del Capitolo metropolitano con l’arciprete, monsignor Gianantonio Borgonovo e un gruppo di fedeli, tra cui il presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo, Fedele Confalonieri e il direttore generale, Fulvio Paravadelli. .

Mentre l’antico marchingegno sale lentamente verso il Santo chiodo, vengono proclamati brani dei Vangeli della Passione. Ed è, appunto, a questo lento ascendere e discendere, che fa riferimento l’Arcivescovo nella sua omelia.

La lentezza: una partica estranea alla vita di oggi

«La nivola sale lentamente, scende lentamente, lo sguardo è attratto dall’evento che si ripete in questo Duomo, soltanto in questa occasione, una volta sola all’anno. Ecco: la lentezza è un aspetto, è una grammatica del celebrare. La lentezza, così estranea forse alle abitudini di oggi, è una pratica necessaria perché si possa apprezzare il segno. Stare a lungo a guardare è un esercizio che può aiutare a rendere più intensa la partecipazione, più acuto il pensiero, più viva l’attesa. Stare a guardare rende più profonda la compassione, più forte la fede, più acuto il dolore».

Come quello, della madre e del discepolo amato che stavano sotto la croce. Maria, il simbolo, secondo la tradizione, dello strazio per il figlio morto, anche se forse – suggerisce il vescovo Mario -, il messaggio dell’immagine evangelica è un altro. «È come se la madre e il discepolo amato stessero in attesa di una parola, come se l’incompiuto domandasse un compimento. La madre e il discepolo amato rappresentano l’umanità che abita nell’incompiuto dei propositi che non riescono, del desiderio di amore che non viene mai adeguatamente saziato, dei propositi di bene che non riescono a diventare un’opera persuasiva, della promessa non mantenuta, del sentiero attraente interrotto». Tra tanti incompiuti umani, uno è, invece, il compimento: la morte di Gesù. «Gesù interpreta la sua morte come il compimento. La sua missione non è stroncata della morte e la sua morte non è il fallimento della sua missione. Questo morire è il compimento. Questa è l’ora in cui la madre e il discepolo amato, e tutti coloro che rivolgono lo sguardo a colui che è stato trafitto, sono salvati, ricevono lo Spirito, vivono della vita del Figlio di Dio. La salvezza è compiuta perché riceviamo lo Spirito che ci permette di vivere da figli di Dio».

Infine, la benedizione dall’altare maggiore impartita dall’Arcivescovo con la croce contenente il Santo chiodo, esposta, poi, in altare alla venerazione pubblica.

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