Le profezie di Don Bosco alla Real Casa di Savoia
Il Risorgimento è spesso considerato uno dei periodi più illustri della storia italiana, momento in cui si giunse finalmente all’agognata unità dei popoli dello “Stivale” sotto un’unica bandiera. Tuttavia fu un processo lungo, sanguinoso e con più dimensioni parallele, operanti talune pubblicamente, altre, le più pericolose, nell’ombra, perlopiù in seno alla massoneria e al liberalismo più estremo.
Il Regno di Sardegna, stato cattolicissimo e fedelissimo a Santa Romana Chiesa sino alla morte di Re Carlo Felice (1765-1831), visse una drastica virata ideologica con l’estinzione del ramo primario della Casa di Savoia e la salita al trono dei Principi di Carignano, in particolare con Re Carlo Alberto (1798-1849), concessore dello Statuto Albertino, e di suo figlio Vittorio Emanuele II (1820-1878), futuro primo Re d’Italia. Con quest’ultimo, negli anni ’50 dell’800, si assistette ad una svolta decisiva in quel terribile processo di laicizzazione e de-clericalizzazione della società che avrebbe, di lì innanzi, influenzato tutto il processo di costruzione dello Stato moderno su modello di altre realtà europee simili, in particolare la Francia.
Punta di diamante di questo fenomeno furono le riforme promosse dal governo del Conte Camillo Benso di Cavour, accanito liberalista e uomo ben lontano dalle tradizioni del Piemonte autentico e devoto. Egli, con l’aiuto del suo ministro della Giustizia Urbano Rattazzi (1808-1873), presentò, il 28 novembre 1854, una proposta di legge alla Camera dei Deputati che aveva un unico obiettivo feroce e totale: la soppressione degli ordini religiosi per eliminare l’influenza nociva che essi esercitavano sia alle condizioni economiche e sociali degli stati (sic!), sia alla religione stessa (De Mattei, 1994).
Questa folle idea di riforma persecutoria nei riguardi di quelle realtà che avevano retto per secoli sia il mondo rurale piemontese, sia la formazione delle sue élite, non tardò a generare una tale preoccupazione generale che il papa in persona, Pio IX (1792-1878), intervenne sulla questione con un’allocuzione concistoriale che suscitò le preoccupazioni di Vittorio Emanuele II.
Si trattava, peraltro, di una riforma che andava ad aggiungersi ad altri gravi precedenti di scardinamento degli ordini naturali della società e di delegittimazione della Chiesa Cattolica: le Leggi Siccardi del 1850. Con queste leggi venivano aboliti i privilegi ecclesiastici: il foro ecclesiastico, ovvero il tribunale autonomo che permetteva agli uomini di Chiesa di essere giudicati da altri uomini di Chiesa anziché dalla giustizia laica; il diritto di asilo, ovvero l’impunità giuridica di coloro che cercavano rifugio nelle chiese; e la manomorta, l’inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici.
Alla presentazione del disegno di legge Rattazzi un profondo clima di tensione serpeggiava ormai da anni fra le verdi pianure cisalpine del Piemonte. Nel parlamento, già corrotto negli animi dal governo d’Azeglio (1849-1842) con le sue succitate citate Leggi Siccardi, le ali anticlericali appoggiavano ora Cavour, e la Destra conservatrice, quella vera, non riusciva a porre argini sufficienti alle derive distruttive di questa nuova alleanza, seppur lodevoli tentativi furono portati avanti, in particolare grazie al senatore e vescovo di Casale Monferrato Luigi Nazari dei conti di Calabiana (1808-1893) (Romeo, 2004).
In questa vicenda storica, in pochi sono a conoscenza della dinamica “celeste” che intervenne nel tentare di evitare la catastrofe. Il grande santo torinese, Giovanni Bosco (1815-1888), ampiamente noto già all’epoca per i suoi sogni profetici e per la sua indefessa lealtà alla Santa Sede, decise di scrivere al re per avvertirlo di un nefastissimo sogno che ebbe a fine novembre 1854, esattamente in concomitanza con la presentazione del disegno di legge Rattazzi in parlamento.
Scrive il Pilla (1961): «Don Bosco […] nel novembre del 1853 […] aveva avuto un sogno. Gli era sembrato di trovarsi circondato da sacerdoti e da chierici, presso il porticato centrale dell’Oratorio, quando aveva veduto comparire, in mezzo al cortile, un valletto di Corte, in uniforme rossa e a cavallo, il quale aveva gridato: – Una grave notizia! – Che notizia?! – domandava, allora, il veggente. – Annunzia: grande funerale a Corte! – Ma come! – obiettava il dormiente con un gemito. – Chi sei tu e perché parli così? – Ripeto: gran funerale a Corte! Annunzialo! – Poi era scomparso. Questo messaggio aveva così impressionato il veggente, da farlo destare di soprassalto. Ancora sotto l’incubo di quel sogno, Don Bosco aveva dettato ad Angelo Savio la descrizione del valletto e le fiere parole ch’egli aveva pronunciate in tono di comando; poi, riletta tale descrizione, il Santo la fece immediatamente recapitare a Vittorio Emanuele. Sembrava, dapprima che quel messaggio non avesse fatto soverchia impressione al sovrano, che non vi aveva dato neppure riscontro, ma trascorsi cinque giorni dalla spedizione di esso, il Santo faceva un secondo sogno. Gli era sembrato di trovarsi dentro la sua cameretta, intento a scrivere, quando gli era parso di udire lo scalpitìo di un cavallo nel cortile. A un tratto, gli pareva che si spalancasse la porta e che apparisse lo stesso valletto, in livrea rossa, il quale gli gridasse: – Annunzia: non un funerale, ma grandi funerali a Corte! – Ma perché? Come! Quando? – domandava il dormiente con voce tremante per la commozione. Perché però il messaggero era già uscito, al Santo era parso di affacciarsi al poggiuolo prospicente sul cortile, per richiamare l’araldo e chiedergli spiegazioni di quel tremendo messaggio. Allora il banditore regale, già balzato a cavallo, si era rivolto a lui per gridargli con voce stentorea: – Annunzia grandi funerali a Corte! – Poi era scomparso come d’incanto lasciando il veggente sgomento per quell’annunzio, che preludeva a lutti incombenti sulla famiglia regale. Per scongiurarli, Don Bosco inviò subito al re un’altra lettera, descrivendogli il nuovo sogno e scongiurando il sovrano a sottrarsi ai minacciati castighi con l’impedire l’approvazione della legge riguardante l’incameramento dei beni ecclesiastici. – Se sarà approvata quella legge, essa attirerà certamente gravi sventure sulla Casa reale… – diceva poi il Santo al chierico Cagliero e agli altri, ai quali aveva raccontato il sogno. Intanto, impressionato da quel secondo messaggio più allarmante del primo, Vittorio Emanuele lo confidò al marchese Fassati il quale visitò subito Don Bosco per dirgli che il re era rimasto assai colpito dai due messaggi, per i quali, anzi, provava sdegno. – Ma quanto sta scritto corrisponde a verità… – dichiarò il Santo. – Mi rincresce di avere turbato il sovrano, ma ho scritto per il bene suo e della Chiesa. […].
Intanto ai primi del 1855, la regina madre Maria Teresa cadde improvvisamente malata. Chiamato a sé il figlio Vittorio, gli disse che sarebbe morta per causa sua. Difatti morì il 5 gennaio a 54 anni di età. Il lutto fu universale, poiché la regina era molto generosa e i suoi beneficati quindi senza numero. Ma mentre si chiudeva quel sepolcro, giunse al re un’altra lettera misteriosa e così scritta: «Persona supernamente illuminata ha detto: – Apri l’occhio! È già morta la regina, ma se la legge di soppressione passasse, avverrebbero ancor più gravi disgrazie alla tua famiglia. Questo non è che il preludio dei mali. [“Erunt mala super mala in domo tua”, annotano altre fonti ad integrazione della presente, ndr] Se non recedi, aprirai un abisso, che non potrai scandagliare!».
Il sovrano rimase sbalordito, impressionato e così sgomento da non poter più riposare, perché minacciato da castighi divini con continue lettere di prelati. I funerali di Maria Teresa furono celebrati la mattina del 16 di gennaio e la salma fu trasportata a Superga. Lo stesso giorno il re fu avvisato di accorrere al capezzale di Maria Adelaide, nuora della defunta [Sua moglie, ndr]. A quella notizia tutto il Piemonte trepidò per la famiglia reale, ma il 20 di gennaio ella morì munita dei Sacramenti a soli 33 anni di età. La stessa sera fu portato il Viatico al principe Ferdinando duca di Genova e unico fratello del re. Alle onoranze funebri di Maria Adelaide, per la cui scomparsa la Camera dei Deputati deliberò di sospendere le sedute per dieci giorni, parteciparono anche gli oratoriani con ì chierici, i quali, di ritorno da Superga, espressero la loro impressione nel costatare l’avveramento dei due sogni.
Sì! – confermò il Santo. – Sono proprio imperscrutabili i giudizi di Dio. Ma non sappiamo se con questi due [tre, ndr] funerali sia paga la divina Giustizia.»
Alle citate morti della madre, della moglie e del fratello del Re, si aggiunsero, il 17 maggio, quelle di suo figlio, il principe infante Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio, andando a costellare ulteriormente di lutti reali l’anno 1855. Questi furono, senza dubbio, segni e tentativi estremi del Cielo nell’indurre il Re a non firmare quella legge tanto infame.
Don Bosco non si fermò, fece pubblicare le Maledizioni di Altacomba, testi con cui gli antichi conti di Savoia, nelle carte di fondazione dell’Abbazia di Hautecombe (atavico mausoleo della Famiglia), tuonavano contro quei discendenti che avessero osato distruggere o usurpare i beni della Chiesa (De Mattei, 2000). Altri chierici iniziarono, dunque, a scrivere a Sua Maestà, provando a scongiurarlo di non firmare, al punto che, annota il Tavallini, il Re non poteva più avere riposo: «minacciato dei castighi del cielo da continue lettere di prelati». (Tavallini, 1887, p. 150).
Nonostante tutto ciò, e nonostante la crisi politica innescata dal vescovo Nazari di Calabiana che riuscì a portare a delle brevi dimissioni di Cavour nell’aprile del 1855, il 29 di maggio il ricostituito governo riuscì, sui cadaveri dei Savoia e fra le lacrime dell’intera Chiesa, a far approvare la Legge Rattazzi.
Trentaquattro ordini religiosi furono soppressi, trecentotrentacinque fra monasteri e conventi vennero chiusi, e migliaia di membri del clero regolare si trovarono in mezzo alla strada, con i loro beni incamerati dalla neonata Cassa Ecclesiastica del Regno di Sardegna (Romeo, 2004). Il 26 luglio del medesimo anno la risposta da Roma non tardò ad arrivare: il Santo Padre Pio IX fulminò con la scomunica maggiore tutti coloro che avevano proposto, approvato e sanzionato tale legge, Cavour e Vittorio Emanuele II inclusi.
La loro fine non fu fra le migliori: il 29 maggio del 1861, anniversario dell’approvazione della nefanda legge, il Conte di Cavour manifestò improvvisamente un forte “malessere indefinito”, con vomito, dolori intestinali e febbre fortissima (alcuni parlano di una febbre malarica contratta in risaie che si sarebbe incamerato dalle proprietà di un convento di monache); il 5 giugno successivo, anniversario della promulgazione delle precedenti e tremendissime leggi Siccardi, ricevette al suo capezzale il re per l’ultima volta. Spirò poche ore dopo, alle 6:45 del 6 giugno 1855 (De la Rive, 2003), da scomunicato e senza aver ritrattato le sue posizioni, sebbene avesse ricevuto illecitamente il viatico da padre Giacomo da Poirino, il quale venne sospeso a divinis da Pio IX per tale atto.
Vittorio Emanuele II visse invece fino al 1878, diventando il primo Re d’Italia, ma fu colpito anch’egli da pestilenza letale durante una battuta di caccia, nonostante la sua “giovane” età. Il papa, nella sua grande misericordia, nonostante tutti i mali arrecatigli dal re e dai suoi governi, non in ultimo l’usurpazione dello Stato Pontificio e la cattività dell’intera Chiesa Cattolica con la sua stessa segregazione in Vaticano, inviò al Quirinale il suo personale confessore, monsignor Marinelli, ma non venne nemmeno ricevuto. Gli ultimi sacramenti furono amministrati a Vittorio Emanuele dal suo cappellano, il canonico Valerio Anzino, aprendo la strada all’ultima delle profezie di San Giovanni Bosco: «La famiglia di chi ruba a Dio è tribolata e non arriva alla quarta generazione» (De Mattei, 2000). E fu proprio così; dopo innumerevoli tribolazioni fra regicidi, guerre mondiali, dittature e invasioni, con la quarta generazione, costituita da Umberto II (1904-1983), la cattolicissima Famiglia Savoia, nonostante la sua plurisecolare e antica alleanza con la Chiesa di Roma, perse infine il frutto a lei più caro: l’Italia intera. Sic transit gloria mundi.
Bibliografia:
- De la Rive, W. (2003). Il conte di Cavour. Racconti e memorie. Santena.
- De Mattei, R. (1994). Il centro che ci portò a Sinistra, Fiducia, Roma.
- De Mattei, R. (2000). Pio IX. Piemme, Roma.
- Pilla, E. (1961). I sogni di Don Bosco, Cantagalli, Siena.
- Romeo, R. (2004). Vita di Cavour, Laterza, Bari.
- Tavallini, E. (1887). La vita e i tempi di Giovanni Lanza. Vol. I, Roux, Torino.