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L’epitaffio di Dombercht

Il commento filologico e la traduzione di un epitaffio: Dombercht, discepolo di san Bonifacio

Il seguente epitaffio fu pubblicato per la prima volta da Wilmanns (Rheinisches Museum, N.F., 23, p. 404), per essere poi inserito da Duemmler (Poetae I 19) nell’appendice ai testi di Bonifacio. Si è scelto proprio di collocarlo nella sezione dedicata all’apostolo della Germania poiché non si sa praticamente nulla del defunto, tale Dombercht, se non che, come recitano i versi, era discepolo di Bonifacio e proveniva dall’Inghilterra. È possibile postulare che egli avesse una buona formazione culturale e un incarico pastorale di rilievo, molto probabilmente era un vescovo.

L’analisi dello stile ha suggerito l’ipotesi secondo la quale il testo sarebbe stato composto da un allievo di Pietro da Pisa. Forse si tratta quindi di un esercizio letterario, dal momento che l’epitaffio si conclude con una frase in prosa che potrebbe sembrare una preghiera per chiedere a Dio la liberazione dai peccati, mentre invece chiede una “salvezza filologica”, di poter cioè preservare il testo dagli errori. Del resto, il codice che lo contiene (Vat. Pal. Lat. 1753) presenta, oltre a codesto epitaffio, opere di carattere grammaticale e metrico come il trattato De pedum regulis di Aldelmo di Malmesbury[1]. Segue il testo con le note che indicano i loci paralleli e le varianti testuali, la traduzione e il commento.

Funereo textu scribuntur facta priorum[2],
ut discat vanas linquere quisque vias.
Sed non est flendus, studuit qui vivere Christo[3],
et mundi toto temnere corde[4] mala.
Et si forte cupis nomen meritumque sepulti
Discere, tu poteris magna[5] viator amans.
Hac iacet egregius nivea sub mole sacerdos
Qui meritis caeli vivit in arce[6] suis,
Eloquio fulgens, sacro cognomine dictus
Dombercht, qui mundi clara lucerna fuit[7].
Grammaticae studio, metrorum legibus aptus,
Plurima percutiens funere corda suo
Occidit et nobis fletus gemitusque reliquit,
Quos hic culparum[8] poena dolorque tenent.
Hic rabiem mortis calcavit morte minantis
Pergens luciflui[9] laetus ad astra poli[10].
Lumen erat patriae[11], sapientia maxima gentis,
Perfundens sancta turbida corda[12] fide,
Inlaesum vigilans domini servavit ovile,
Pestiferi extinguens toxica saeva[13] lupi.
Pauperibus largo praebebat munera[14] dono
Ostendens gregibus pabula pulchra dei.
Artibus et meritis fulgens Bonifatius almus,
Pro Christo gladiis qui sua membra dedit[15],
Hunc magno studio docuit, nutrivit[16], amavit,
Complens quod sonuit vatis in ore pium.
Francorum ad patriam tremulas venere per undas
Anglorum pelagi germine de nitido[17].
Praesul oves domini multos sine sorde[18] per annos[19]
Rexit et aeternae carpsit iter[20] patriae.
Hac venerandus humo voluit requiescere, poscens
Ut nullus violet, quod tenet ipse solum.
Hic, populi, sanctum precibus pulsate[21] iacentem,
Ut precibus solvat vincula vestra suis
Et foveat semper, quos vivens semper amavit,
Et quos hic docuit, clarus ad astra levet.
Rogo te, domine pater, ut emendes[22] et corrigas.

Testo dell’Epitaffio

Traduzione: Le imprese di coloro che sono venuti prima di noi sono messe per iscritto in un’epigrafe funebre, perché ciascuno impari a lasciare le strade della vanità. Ma non deve essere oggetto di pianto chi si premurò di vivere per Cristo e di disprezzare di tutto cuore i mali del mondo. Se forse tu desideri conoscere il nome e i meriti del defunto lo potrai fare, pellegrino che ami le cose grandi. Giace dentro questo bianco sepolcro il nobile sacerdote, che ora vive, grazie ai propri meriti, nella rocca del cielo; fulgido per eloquenza, chiamato col sacro appellativo di Dombercht, che fu una splendida lampada del mondo. Perito nello studio della grammatica e nelle leggi della metrica, straziando con la sua morte moltissimi cuori, è morto e ha lasciato lacrime e gemiti a noi che pena e dolore per le colpe trattengono in questo mondo. Egli schiacciò con la morte la furia della minacciosa morte, ascendendo beato agli astri del cielo luminoso. Era luce per la sua patria, era la somma saggezza del suo popolo, irrorando con la santa fede i cuori afflitti, vigilando conservò illeso l’ovile del Signore, estinguendo il terribile veleno del lupo mortifero. Offriva doni ai poveri con mano generosa, mostrando al gregge di Dio i bei pascoli. Il santo Bonifacio – illustre per scienza e meriti – che consegnò per Cristo il suo corpo al martirio, lo istruì con grande impegno, lo nutrì e lo amò; colmandolo di ciò che nella bocca del poeta è detto pio. Entrambi giunsero nel territorio dei Franchi attraverso le tremule onde del mare provenendo dalla splendida patria inglese. Come vescovo governò le pecorelle del Signore per molti anni senza macchia e si guadagnò la strada per la vita eterna. Venerabile, volle riposare in questa terra chiedendo che nessuno potesse violare quel suolo che ora egli tiene. O genti, bussate con le vostre preghiere al santo che è qui sepolto affinché lui, con le sue preghiere, sciolga le vostre catene e favorisca sempre coloro che amò in vita e, glorioso, conduca in cielo coloro che istruì.

Ti prego, o Signore e Padre, di emendare e correggere.

Commento: Anzitutto, l’autore dimostra di conoscere correttamente la scansione metrica: eccezion fatta per la parola metrorum, resa con la prima sillaba lunga anziché breve, non vi sono infrazioni prosodiche. Il poeta dimostra di saper utilizzare in maniera intelligente le tessere che gli provenivano dalla tradizione. Certamente non mancano le citazioni “di maniera”, cioè quelle dei grandi classici come Virgilio, Ovidio e Lucano; ciò non deve stupire o essere considerato indice di scarsa originalità poiché ampie porzioni dei testi classici erano imparate a memoria nelle scuole e riaffioravano, in maniera più o meno cosciente, nella mente degli scriventi.

Il nostro autore, inoltre, pare conoscere molto bene la poesia cristiana: Giovenco, Prudenzio, Eugenio di Toledo, Venanzio Fortunato e Paolino di Nola in modo particolare.

Sono poi numerosi i punti di contatto tra questo epitaffio e quello per Pietro I, vescovo di Pavia, che possono essere così riassunti:

Epitaffio di DomberchtEpitaffio di Pietro I
Funereo textu scribuntur facta priorumCandida funereo sculpuntur marmore gesta
Sed non est flendusSed non est flendus
Vivere ChristoVivere Christo
Eloquio fulgensNobilis alloquio
Oves Domini…rexitRexit ovile Dei
Nobis fletus gemitusque reliquitNos tantum gemitus retinent

Forse l’autore ha composto l’epitaffio per Dombercht avendo davanti a sé l’epigrafe del vescovo pavese oppure aveva in mano una sua trascrizione: un discreto numero di riprese è difficilmente casuale.

Se il poeta appartiene alla cerchia degli allievi di Pietro di Pisa (le cui tessere sono saggiamente inserite) bisogna ricercare elementi della tradizione franca: vanno quindi in tal senso i riferimenti a Sidonio Apollinare, nobile lionese del V secolo che divenne poi vescovo dell’Alvernia e ad Alcimo Avito, anch’egli nobile, vissuto tra V e VI secolo, proveniente dall’Alvernia e poi arcivescovo di Vienne. Più strettamente legati al tema funebre sono i riferimenti agli epitaffi di Rotaide e Aggiardo.

Infine non vanno trascurati i riferimenti scritturali: al libro di Gioele, dove toto corde è tratto da un brano penitenziale (Ioel. II 12-19)[23] e qui inserito per invitare a cambiare vita, disprezzando il peccato; il vangelo che insegna a bussare, cioè a pregare insistentemente. Si noti che nell’epitaffio non c’è alcuna richiesta di suffragio, si presume che il defunto sia già nella beatitudine e possa intercedere per il suo popolo. A mio avviso, non è da trascurare l’augurio multos per annos del verso 29: il sintagma è inserito in un verso che indica Dombercht come un praesul; è la formula, leggermente modificata (da Ad multos annos) che è prevista come augurio al termine delle consacrazioni episcopali, non in quelle sacerdotali o diaconali e neppure nelle benedizioni abbaziali. Pertanto, è possibile affermare con relativa sicurezza che colui che giace nella tomba era un vescovo, subito acclamato come santo dal gregge che amò e guidò con solerzia.


Note

[1] Questo codice è infatti indicato come uno dei più importanti testimoni del trattato, si veda R. Leotta, Considerazioni sulla tradizione manoscritta del «De pedum regulis» di Aldelmo, «Giornale italiano di filologia», 32 (1980), pp. 119-134: 119.

[2] Facta priorum: cfr. Sidon. Carm. II 26.

[3] Vivere Christo: cfr. Paul. Nol. Carm. X 284; XXXI 499.

[4] Toto corde: cfr. Ioel. II 12; Ovid. Her. XIX 156; Paul. Nol. Carm. VII 5; XXI 372.

[5] Il manoscritto presenta la lezione magne, ma non si capisce perché dovrebbe appellarsi così il viandante, pur pio. Seguo la congettura di Willmans che propone un complemento oggetto di amans. Inoltre tu poteris magna riprende i carmi di Pietro di Pisa XVII 26.

[6] Vivit in arce: cfr. Pietro di Pisa Carm. XXI 8.

[7] Mundi clara lucerna fuit: cfr. Pietro di Pisa Carm. XVII 26.

[8] Culparum: è interessante notare che questo genitivo plurale (non così il suo nominativo) è presente esclusivamente nella poesia cristiana, nei versi di autori come Prudenzio, Eugenio di Toledo, Paolino di Perigueux, Ennodio e Draconzio.

[9] Lucifluus, -a, -um è aggettivo assente nella tradizione classica, compare in Prudenzio, Giovenco e Venanzio Fortunato.

[10] Astra poli: cfr. Prud. C. Symm. I 590; Paul. Nol Carm. XXVII 221; Drac. Satisf. 182; 233; Ven. Fort. Carm. I 9, 6.

[11] Lumen patriae: cfr. Alc. Avit. Carm. App. XV 2.

[12] Turbida corda: cfr. Prosp. Epigr. XXIX 9.

[13] Toxica saeva: cfr. Mart. Epigr. I 18, 6; X 36, 4.

[14] Praebabat munera: cfr. Iuvenc. Evang. II 8.

[15] Membra dedit: cfr. Hor. Sat. II 2, 81; Ovid. Am. I 6, 6; Eug. Tolet. Carm. XXI 22.

[16] Docuit, nutrivit: cfr. CLE MCDXXV 11 (epitaffio di Onorato di Vercelli); Pietro di Pisa Carm. XXXVIII 6.

[17] Sempre in iperbato, ma con excelso […] de germine nell’epitaffio di Rotaide di Paolo Diacono, v.2.

[18] Sine sorde: cfr. Ven. Fort. Carm. VIII 3, 321.

[19] Multos per annos: sempre con la forma in anastrofe cfr. Verg. Aen. I 31; Luc. Phars. V 472; CLE CXCI 5 (epitaffio del soldato Tito Vezzio); MCCCXXV 1 (epitaffio di Giulio, sposo di Trebia); richiama inoltre l’augurio liturgico usato nelle consacrazioni episcopali.

[20] Carpsit iter: cfr. epitaffio di Aggiardo, v. 18.

[21] Pulsate precibus: pur non essendovi queste parole il concetto è tratto da Lc XI 9. È poi un riferimento a Pietro di Pisa Carm. XVII 28.

[22] Il manoscritto presenta la lezione emendas, ma è chiaro che sia necessario un congiuntivo.

[23] Non è un caso che il brano di Ioel. II sia inserito da una versione del lezionario gallicano come lettura per la prima domenica di Quaresima. È possibile che la pericope fosse ormai diventata emblema dello spirito della μετάνοια richiesta al buon cristiano.

Ringrazio il prof. Marco Petoletti per aver fornito il materiale e lo spunto per il presente lavoro.

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