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Noli timere

MESSAGGIO AUGURALE PER IL NUOVO ANNO

Carissimi,
è difficile trovare le parole con cui potermi esprimere soprattutto per augurarvi un buon inizio anno. In questo ultimo anno abbiamo affrontato ogni sorta di difficoltà: quella fisica riguardo al virus che ancora oggi ci lega ad una sorta di terrore e paura, e quella spirituale che in alcuni momenti ci ha privato del Sacrificio Eucaristico e della presenza viva e reale di Nostro Signore Gesù Cristo. Se dovessimo fare un bilancio di questo ultimo anno che cosa potremmo considerare di positivo? A primo impatto poco, se non addirittura nulla. Tanti malati e tanti morti, tanta sofferenza e poco gaudio, eppure ci dimentichiamo di qualcosa. Qualcosa che è sempre stato li sotto i nostri occhi e che abbiamo dimenticato. Ci siamo così tanto preoccupati di curare il nostro corpo con amuchina, guanti e mascherine ma ci siamo dimenticati della nostra anima. Ci siamo dimenticati della cosa più importante: prenderci cura realmente di noi stessi. Tanti tamponi per paura di essere positivi, poche confessioni pur sapendo di essere in stato di peccato. Pronti a combattere il virus con prodotti chimici, ma del tutto lontani dal prendersi cura di quell’anima che un giorno si presenterà davanti a Dio. Sarà limpida oppure sarà sporca come il fango?

La preoccupazione, fomentata dai canali mediatici e dalle istituzioni, ancora una volta, ci ha fatto mettere da parte Dio. Abbiamo pensato che da soli, con le nostre sole forze, grazie alle istituzioni e alla scienza, potessimo combattere il virus e vincere questo male che attanaglia il mondo. Ancora una volta abbiamo creduto di essere più potenti di Dio, ancora una volta abbiamo agito da egoisti così come fecero Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden. Eppure Dio è ancora lì, nell’angolino dove lo abbiamo messo, Egli ha rispettato la nostra scelta proprio in virtù di quella libertà che ci ha donato. Lì ci aspetta e lo fa con le braccia aperte, lì sulla croce da duemila anni pronto a riabbracciare ciascuno di noi.

Oggi, davanti al bambino di Betlemme, vogliamo ammettere di avere bisogno che il Signore ci illumini, perché non sono poche le volte in cui sembriamo miopi o rimaniamo prigionieri del mondo. Abbiamo bisogno di questa luce, che ci faccia imparare dai nostri stessi errori e tentativi al fine di migliorarci e superarci; di questa luce che nasce dall’umile e coraggiosa consapevolezza di chi trova la forza di rialzarsi e ricominciare. Noi abbiamo bisogno di questa forza, abbiamo bisogno di rialzarci dalla nostra condizione di peccato e di avvicinarci a Dio, a Colui che tutto può. Il presepe ci sfida a non dare nulla e nessuno per perduto. Guardare il presepe significa trovare la forza di prendere il nostro posto nella storia senza lamentarci e amareggiarci, senza chiuderci o evadere, senza cercare scorciatoie che ci privilegino. Guardare il presepe implica sapere che il tempo che ci attende richiede iniziative piene di audacia e di speranza. Guardare il presepe è scoprire come Dio si coinvolge coinvolgendoci, rendendoci parte della sua opera, invitandoci ad accogliere con coraggio e decisione il futuro che ci sta davanti. Ma la domanda è questa: noi siamo pronti?

Carissimi, risuonano con forza queste parole di San Paolo: “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5). In modo breve e conciso ci introducono nel progetto che Dio ha per noi: che viviamo come figli. Quale figlio non si rivolge al proprio padre per chiedere aiuto? Quando da bambini cadiamo non tendiamo forse le braccia verso il papà o la mamma? Così anche noi, come i fanciulli, dobbiamo tendere le braccia a Dio Padre che tanto ci ama da mandare il Suo unico Figlio. Proprio Gesù ci ricorda che il fine della vita terrena è oltre la vita, nell’eternità, e l’eterno è immanente alla vita stessa: è questo il principio della gioia evangelica. “Oh, se guardassimo di più il cielo, come potremmo vedere meglio la terra, abbracciarla e servirla! Come potremmo salire sui tetti e annunciare, solerti e lieti, il messaggio che da duemila anni sale dalle profondità dei secoli, e corre per ogni dove come luce e speranza!” (discorso augurale del Cardinale Angelo Bagnasco). Oggi abbiamo perso Gesù Cristo, la fede nella vita eterna, nella realtà di Dio Salvatore dell’uomo, nella risurrezione della carne alla fine del mondo. Siamo così presi dal “hic et nunc” da lasciar così che si consumi subito, da diventare banale: ma la vita terrena non è mai banale perché è dono di Dio ed è chiamata alla vita eterna. Allora l’augurio per il nuovo anno è questo: che possiamo insieme riscoprire il dono che Dio ci ha fatto.

“Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre” (Lc 7,11-17).

Questo brano evangelico ci aiuta a comprendere meglio il dono della vita che il Signore ci ha fatto. La donna ha perso gli affetti più cari, il marito ed il figlio e ora sta accompagnando quest’ultimo all’uscita della città. C’è mestizia nella vita umana che è data da una consapevolezza: tutto passa, le opere, ciò che possiamo fare, quello che possiamo costruire, le stesse persone che conosciamo e che amiamo, tutto passa! Un po’ come è accaduto in questo ultimo anno, quasi tutti abbiamo perso un affetto caro. Tuttavia fare uscire dalla città significa fare uscire dalla propria quotidianità; la città è il luogo in cui si vive, mettere fuori equivale ad escludere. Gesù però sta per entrare in città, il suo entrare nella nostra quotidianità è un portare vita nuova, permette la riscoperta di tutto, opere ed eventi, in funzione della vita. Allora la vita non sarà più “tempo da far fruttare economicamente”, o una scalata per arrivare a convincersi che la propria vita ha avuto un senso: “ho fatto grandi cose e per questo la mia vita è stata piena”. Lui restituisce dignità ad ogni cosa, ad ogni persona, nulla è perduto se è nel bene, ciò che è frutto dell’Amore è eterno.

Gesù non permette a questa donna di portare fuori dalla città il suo passato, di separarsi dalla sua storia come se fosse luogo di morte e non le rimanesse solo che il pianto. Lui si commuove, accoglie dentro di sé il vissuto di questa donna, non le rimane estraneo, l’accoglie e le restituisce luce: “Non piangere”. C’è un pianto che è solo sconforto, solitudine e delusione di vita, il pianto di chi non spera più. Anche Gesù piangerà ma la sua speranza non viene meno, è il pianto di chi ama e, proprio per questo, va oltre la morte. Gesù tocca la bara, questo era proibito all’epoca perché equivaleva a contaminarsi, per questo venivano imbiancati i sepolcri: proprio per essere ben visibili e non essere toccati dai viandanti. Dio tocca la nostra morte, i fallimenti della nostra vita, le delusioni e la perdita di tutto. L’incontro fa arrestare il corteo funebre, questa fuga dal mondo, dalla vita reale è arrestata dalla presenza di Gesù che è vita, tutta intera nella sua profondità.

Giovinetto, io ti dico, destati”: è il risorgere, l’uscire fuori dal luogo di morte. Morire significa poggiare tutta la propria vita su se stessi, l’egocentrismo proprio del peccato procura questa esperienza. Ma chi recupera la vista sa che la vita non ce la siamo dati da noi stessi, è un regalo di Dio, è impensabile asserire che “la mia vita è frutto della mia volontà”, a ciascuno è affidata la propria vita, che però non si è dati direttamente. Il fatto che siamo custodi della nostra vita non significa che ne siamo i proprietari in senso possessivo. La vita di ciascuno è dono e rimane tale, il peccato ci fa perdere questa verità.

Giovanetto io ti dico alzati”: c’è una chiamata straordinaria, Lui ci chiama ad alzarci e quindi riconoscerci suoi figli, a stare al suo cospetto guardando colui che ci ama.

È questa l’esperienza cristiana, è di questa Luce che parla la Scrittura riferendosi al popolo di Dio ed alla Chiesa. La pagina del Vangelo, infatti, si conclude poi annotando che la parola di questi eventi uscì da quella città per diffondersi in tutta la regione. E ancora oggi questa Parola viene annunciata a noi cristiani e, una volta accolta nella nostra vita, ne diventiamo i portatori, l’annunciamo ad altri. La missione della Chiesa è questa: destarsi dal sonno per restituire Verità a questo mondo.

Davanti all’anno che finisce ci fa bene contemplare il Dio-Bambino! È un invito a tornare alle fonti e alle radici della nostra fede. In Gesù la fede si fa speranza, diventa fermento e benedizione: “Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia” (Esort. ap. Evangelii gaudium, 3)”.

Alex Vescino
Direttore

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