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“Lettera dal Paradiso”

Una riflessione sulla giornata della Memoria attraverso una rielaborazione degli scritti di Edith Stein.

Sono suor Teresa Benedetta della Croce, di me non resta che un piccolo pugno di cenere e di terra scura, dopo che sono stata bruciata dai nazisti nel forno crematorio di Auschwitz. Sono nata a Breslavia, il 12 ottobre 1891, i miei genitori erano ebrei, come lo sono stata anche io fin all’età di 14 anni, quando abbandonai la fede dei miei padri divenendo agnostica. Mi iscrissi a Filosofia e divenni discepola di Husserl e filosofa. Dopo aver letto la vita di Santa Teresa, mia madre, nel 1921 mi dissi: “questa è la verità!”. A lungo avevo cercato questa verità e solo nella Croce l’ho trovata, in una persona e non in un’idea o in un concetto, nella Persona per eccellenza: Cristo.

Mi feci battezzare nel 1922 e divenni Cattolica e dopo qualche anno entrai nell’ordine Carmelitano riformato, fondato da quella Santa che con la sua esistenza umile e sofferente mi ha mostrato l’unica verità. Io rinchiusa dentro la clausura vivevo la mia esistenza, vivevo di Dio, nel vero “giardino” di vita cristiana. La mia vita procedette sempre calma, serena e sicura, fino alla “notte dei cristalli” quando in tutte le città tedesche le sinagoghe furono date alle fiamme. Divenni un pericolo per le mie sorelle e mi fu chiesto di espatriare in Olanda. Io mi sentivo protetta, ero infatti figlia e sorella di Maria, “chi è sotto la sua protezione è certamente ben custodito” che cosa potevo temere? Trascorsi giornate molto tranquille nel “giardino” olandese fino al 1942, quando il regime iniziò le deportazioni di massa verso est, verso la “soluzione finale.”

Non avevo paura, io: donna e monaca ero nelle mani del Signore, ero la “vittima espiatrice per impetrare la vera pace”, sapevo bene che nonostante il mio trasferimento in Olanda non sarei sfuggita al destino del mio popolo d’origine. È il 2 agosto 1942, giorno di grazia per tutta la Chiesa, festa della Porziuncola e del “grande perdono”, quando la Gestapo bussa alle porte della mia casa; qualche giorno prima il mio Arcivescovo rivolse a tutta la diocesi parole dure, pericolose ma vere: “Su coloro che avevano “ucciso” i profeti, che li avevano “flagellati nelle sinagoghe e perseguitati di città in città”, verrà il giudizio di Dio. Ma il giudizio cadrà anche su di noi, fedeli, se non si protesta alla deportazione di concittadini che sono ebrei, ma che hanno gli stessi diritti di tutti noi.” Dopo queste parole le SS non fecero attendere la loro risposta: i rastrellamenti che fino a quel giorno avevano tralasciato gli ebrei battezzati da quel momento non tennero conto più di niente: qualsiasi persona ebrea di origine, anche religiosa o Sacerdote, fu arrestata e deportata. I tedeschi bussarono e io senza perdere la calma dissi a mia sorella, che fuori dalla porta mi attendeva: “Vieni, andiamo per il nostro popolo.”

Il 4 agosto avvenne una delle cose che macchiarono di più la mia dignità di religiosa: durante la registrazione al lager di Westerbork mi fu chiesto a quale confessione religiosa appartenessi e io con forza e senza esitare risposi ad alta voce: “sono cattolica!” ma l’ufficiale mi disse con disprezzo: “Niente affatto. Tu sei una maledetta ebrea.” No, questo non era affatto vero, io ero cattolica, carmelitana e vittima a Dio per i miei fratelli. Erano tante le donne che piangevano e che si disperavano: venivano infatti divise dai propri mariti. Non me lo feci ripetere due volte e subito decisi di essere per loro mezzo di consolazione, di essere per loro strumento di gioia, cercando di portare a tutti serenità, anche se era molto difficile.

Provavo molta compassione per i miei fratelli, infatti a uno di loro mentre cercavo di essere d’aiuto dissi: “Non avrei mai immaginato che gli uomini potessero essere così… e che le mie sorelle e i miei fratelli ebrei dovessero soffrire tanto… Ora io prego per loro. Ascolterà Dio la mia preghiera? Certamente ascolterà il mio lamento.” Ero convinta, e lo sono ancora, che in quel momento Dio ascoltò questa mia supplica dandomi l’occasione di essere aiuto per tutti, offrendo tutta me stessa per alleviare le loro sofferenze, io ero calma e abbandonata a Dio. Io continuavo a dire a tutti: “qualunque cosa avverrà, io sono preparata. Gesù è anche qui con noi.”

Gli anni al Carmelo mi avevano fortificato, mi avevano reso un candido giglio che voleva donarsi tutto agli altri, mi tornarono poi in mente, durante il trasporto del 7 agosto, quelle parole che scrissi poco prima di essere deportata: “Il Salvatore non è solo sulla croce. […] Ogni uomo che nella successione dei tempi sopportò con pazienza un destino duro pensando alle sofferenze del Salvatore o che prese su di sé volontariamente una vocazione espiatrice, ha contribuito con ciò ad alleggerire il carico enorme dei peccati dell’umanità e ha aiutato il Signore a portare il suo peso. Ancora di più, Cristo, il capo, compie l’opera redentrice in quelle membra del suo corpo mistico, che si uniscono a lui in anima e corpo per la sua opera di salvezza. […] La sofferenza riparatrice, accettata volontariamente, è ciò che in realtà più profondamente unisce al Signore”.

Potevo odiare i miei persecutori, potevo arrabbiarmi con loro, ma non avrei fatto altro che il loro gioco. L’odio, la guerra e la persecuzione si vincono solo con l’amore e non con la violenza. La violenza porta ad altra violenza e io non volevo che essere portatrice d’amore e di pace.

Giunsi ad Auschwitz, avevo cinquantuno anni appena e mia sorella cinquantanove, per un’anno fui mandata alla camera a gas, infatti chi non aveva ancora cinquant’anni veniva destinato ai lavori forzati. Noi, “maledetti ebrei” dovevamo essere “distrutti”, dovevamo essere eliminati dalla faccia della terra, perché l’odio di alcuni uomini aveva sopraffatto il cuore di molti e così, con mia sorella, fui portata in quella buia camera dove la mia “fine”, il mio martirio, veniva attuato. Io amavo i miei persecutori, li amavo, e pregavo per loro, perché capissero la vera dignità di ogni essere umano, quella dignità che è stata riabilitata dalla venuta del mio e nostro salvatore: Gesù Cristo. Sapevo bene che “La croce non è fine a sè stessa” ed è il “simbolo trionfale con cui Cristo batte alla porta del cielo e la spalanca”. Infatti è proprio alla Croce che io, in quel momento, mi sono aggrappata, sicura di fare la volontà di Dio e sicura che avrei visto il mio amato faccia a faccia. Alla base di tutto infatti c’è l’amore, se cessa di esistere cessa la dignità di ogni uomo, dignità che Cristo ha riacquistato con il suo sangue. Cari Fratelli, io mi sono offerta vittima al Signore anche per voi, affinché la Sua pace sia sempre nel cuore di ogni uomo, di ogni persona e perché la dignità di qualsiasi tribù, popolo o nazione sia rispettata da ogni uomo. L’amore è difficile da conquistare ed è difficile vivere in esso, bisogna sempre stare attenti e vigilare, perché basta una tempesta e l’odio rivivrà tra le genti. Vivete d’amore, rispettando tutte le creature di Dio.

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